Dannata ‘nouvelle cuisine’, se mi invitate a cena fatemi mangiare (Il caffè di Monia)

Un invito a cena. Perché "Devi avere relazioni umane". Si finisce nel ristorante chic. Menù con nomi esotici e 6 chicchi di riso con una patata lessa nel piatto. Dannata 'nouvelle couisine'

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Mi conosco e so di me cose molto spiacevoli. Per questo, passo la vita nella fatica e nella speranza di migliorarmi. Il mondo però non mi aiuta, invitandomi troppo spesso a preferire la solitudine alla compagnia della gente. Il silenzio mi raccoglie e mi consola sempre.

Ho concluso che tra gli altri, otto volte su dieci le cose che mi sorprendono vengono miseramente sconfitte da quelle che mi disgustano. Solo chiasso e messe in scena, in uno straripante sperpero di non senso.

È sabato sera. “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non sapere starsene in pace, in una camera”. Il castigo per aver violato l’osservazione di Pascal è una serata in compagnia di persone che non conosco, a cui un’amica mi ha invitata persuadendomi della necessità di stabilire relazioni umane. Se lo dice lei! Io questa necessità non la sento più da anni.

A questo genere di serate, quelle post voto, che proseguono all’incirca oltre tre mesi dalle elezioni, tre figure non mancano mai: il notaio, il primario e il politico. Le altre, di contorno, si cambiano a turno di posto nelle luci della ribalta, legando sempre con quelli con cui già sono impastati da una vita per gusti, connivenze, obiettivi, affinità elettorali, o semplicemente per la direzione umana presa dalla loro scala sociale, che troppe volte porta dritta nel seminterrato. Osservo.

La moglie del notaio è un topo di sagrestia, agghindato con capi ed accessori che stanno tra loro come un orso polare sta a un tucano. Al suo arrivo, saluta tutti con un’allegria abbagliante. Poi però, seduta da sola, eccola trasformarsi di colpo nella Bevitrice d’assenzio di Degas. Un uomo sui cinquanta, dottorino rampante, con una mostruosa incapacità di naturalezza, murato nel cemento del suo abito griffato, muove la testa come il pupazzo di Berlusconi su un carro di Carnevale.

Sua figlia a 18 anni è già un’imbecille. Incollata allo Smartphone da cui escono solo suoni di oggetti che esplodono. Naturalmente, squassata com’è dalla febbre dell’idiozia, il pensiero di poter dare fastidio agli altri col volume così alto non la sfiora minimamente. L’Onorevole sessantenne è già in pensione. Finito il gran tour a raccattare voti per la candidatura, gestisce oggi i suoi impegni, che consistono in un indefesso presenzialismo dalla sagra che preferisce alla mostra dell’artista che non capisce.

Sorpresa finale: la coppia di amici sconosciuti sono genitori. I genitori di figli molto piccoli, come è noto, precipitano in una forma di demenza esulcerante, che li porta a parlare con voci da cartone animato, a squittire per ogni minimo gesto dell’infante, a provare tenerezza al suono del ruttino, addirittura compiacimento per la sua cacca che, ti ripetono, non puzza e non sporca, perché la cacca dei bimbi è santa. Se inizi una conversazione, dopo pochi minuti eccoli illustrarti tutti i progressi della sua crescita: ti dicono che se lo chiami già si volta, che è in grado di riconoscere questo e quello, soprattutto che è molto in avanti rispetto ai bimbi della sua età. Ti mostrano la foto scattata col cellulare ad un’ora appena dalla nascita.

Quello che per loro è l’essere più adorabile del mondo, a te, immune ormai dall’affetto miope di madre, appare per ciò che è di solito un neonato: una creatura il più delle volte strana e un po’ deforme. Oppure ti costringono a sorbirti il video del suo primo compleanno, con tutto il contorno di cantilene, applausi, schiamazzi, versi animali, palloncini e giocattoli, da cui non si esce vivi. Mi defilo. Non ho voglia di entrare in quei discorsi. Per fortuna ho due figlie normodotate che non ballano, non recitano, non cantano e di conseguenza non sfrangono le serate degli altri.

Si esce a cena. Salgo in macchina della mia amica, non la strangolo solo perchè dovrà riaccompagnarmi a casa. “Simpatici vero! Ti stai divertendo?”. Potrei sempre chiamare un taxi. Arriviamo in centro. Il ristorantino scelto ha già un nome che se la tira. Ho fame. Musica di sottofondo gradevole, poca confusione. Pochi tavoli e tanti esseri stretti nelle morse dei loro tendicollo. Ho fame.

Si aprono i menù. Amuse-bouche semplificata con essenza à l’ancienne. Eh? Vado avanti. Osservo la carta come si osservano con la stessa espressioni di chi si sofferma davanti ad un manifesto funebre. Amuse gueule croccante su un letto di terroir francese. La terza proposta è indecifrabile ed impronunciabile. Ok prendo quella, la terza. Ho fame. Arriva il cameriere, asessuato, inespressivo, dritto, meccanico, imbalsamato, in assetto da guerra, guardingo, silenzioso.

Porge delicatamente il piatto, rigorosamente in porcellana cinese opalescente, quadrato e leggermente convesso alle estremità. Nove chicchi di riso allo zafferano sormontati da un ciuffetto di prezzemolo, con quattro gocce di aceto aromatico a fare da corona mi guardano addolorati. Alla loro destra, una minuscola patata novella, lessata in brodo vegetale senza olio nè burro, ma arricchita da una sottile foglia d’oro zecchino infilata di taglio. Come guarnizione cacao amaro spolverato lungo tutto il bordo del piatto. Credo sia cacao, lo spero.

Con mia grande sorpresa, vedo che i miei “amici” mangiano con gusto, estasiati dagli accostamenti dei sapori e dalla cronografia del piatto. Sicuramente carezzevole all’occhio, ma spaventevole allo stomaco, a meno che non sei in convalescenza da una grave forma influenzale con complicazioni gastro intestinali. Spengo le azioni e me ne vado in giro coi pensieri. E’ finita. Io e la mia voglia di pane, mortadella e sincerità mesti ci rintaniamo.

Più tardi, a casa, ci prenderemo la nostra rivincita. La mia amica non mi è più amica. Dopo aver chiamato il taxi, malignamente e per vendetta, le ho detto che era ingrassata.