Gli analfabeti alla conquista della provincia (di A.Tagliaferri)

 

di Andrea TAGLIAFERRI

 

 

Nelle ore scorse ho postato su Facebook, come mio solito, un mio articolo scritto per un giornale online con il quale collaboro, perché è ormai acclarato che pubblicare notizie solo sui siti di informazione senza “rimbalzarli” sui social è cosa davvero dannosa. E questo già la dice lunga sul problema di cui andrò a parlare tra poco.

Tornando al mio articolo postato in un gruppo FB, compariva ovviamente con una foto di anteprima, un titolo informativo su “Mr. Pack, il cassonetto intelligente” e un sottotitolo con specificate alcune informazioni ulteriori:

Il dispositivo per la raccolta a punti dei contenitori in plastica per liquidi è stato inaugurato nell’area mercatale in zona Chiappitto ad Alatri. Presto buoni spesa e sconto sulla Tari dai punti accumulati”.

Dopo cinque minuti compare un commento con scritto: “e dove è stato posizionato questo cassonetto?” che faceva il paio ad un altro commento scritto da un altro utente in un altro gruppo con scritto: “ e cosa ci fai con i punti accumulati?”.

A quel punto non ci ho visto più e ho dovuto contare fino a cento per non rispondere in maniera sgarbata dal momento che le due informazioni non solo erano contenute nel testo che, se di interesse come pareva dai commenti, bastava aprire per consultarlo, ma addirittura erano già scritte nel sottotitolo che compare nell’anteprima, senza quindi la necessità di far fatica a cliccare per leggere il pezzo!

Visto che questi episodi ultimamente sono sempre più frequenti, mi sono reso conto di quanto inesorabile sia il declino di un intero settore, quello dell’informazione. In ogni suo ambito, soprattutto quello giornalistico. Ma, cosa infinitamente più grave, di quanto la maggioranza delle persone ormai sia “allergica” all’informazione (quella vera), all’approfondimento seppur minimo di una notizia. Di quanto i nostri cervelli ormai recepiscano passivamente gli input da media di ogni genere, azzerando totalmente non solo lo spirito critico, cosa già nota, ma anche lo spirito di iniziativa, la curiosità, il bisogno di sapere.

Tenterò di affrontare, così, in maniera non certamente esaustiva il fenomeno, sottolineando alcuni punti sui quali auspico un dibattito o, quantomeno, una riflessione.

Partiamo dalla crisi dell’editoria, che c’entra e non c’entra con ciò di cui sto parlando. Se prendiamo come riferimento il 1996, le copie vendute nel giorno medio dal Corriere della Sera erano 647 mila, venti anni dopo, nel 2015, sono scese a 285 mila, -56%. Ma anche negli ultimi anni, tra 2008 e 2015, i numeri sono deprimenti, -48%.

Stessa cosa vale per Repubblica: nel 1996 vendeva 575 mila copie medie, nel 2008 502 mila e nel 2015 248 mila , un -57% sul 1996 e -51% sul 2008. Secondo i dati di gennaio diffusi da ADS, la società i cui soci rappresentano le diverse componenti editoriali e pubblicitarie, la situazione è ancor più a limite come si evince chiaramente dai grafici che propongo ma che servono solo a dare un’idea del problema.

Trattare della crisi dell’editoria non è cosa facile e non è quello che mi interessa in questo momento. Gli episodi di cui parlo, infatti, puntano i riflettori più sul dato sociologico che non su quello economico e di settore, su cui sono stati scritti fiumi di inchiostro….

Inutile sottolineare quanta rabbia mi sia salita nel constatare che le persone ormai non solo non comprano più i giornali (e di certo non perché si abbonano alle edizioni digitali quando esistono, soprattutto per i quotidiani locali), non solo non vanno sui portali di informazione direttamente ma usano solamente i social come canale di informazione dalla realtà circostante, non solo non aprono i link per leggere gli articoli, ma addirittura si soffermano solo al titolo, escludendo anche quella misera riga di sottotitolo che compare già nell’anteprima, senza quindi dover fare alcuno sforzo ulteriore per vederla.

Siamo all’assurdo. Insomma, siamo totalmente passivi, ormai, che dopo la tv che ci risparmiava la fatica di uscire, comprare il giornale pagandolo, e leggerlo, ci offriva le informazioni e le notizie comodamente seduti senza neanche l’impegno razionale di leggere; dopo internet che ci evitava di doverci adattare agli orari della televisione, sollevandoci quindi dal problema temporale, potendo fruire del contenuto in qualsiasi momento e dove voglio grazie ai portatili prima, ai tablet poi ed oggi grazie agli smartphone. Alla fine non ci basta neanche più di ricevere direttamente ovunque siamo le informazioni e le notizie, ma le vogliamo pure già lette e riassunte! Arriveremo a breve, ne sono sicuro, ad informazioni e notizie “infilate” di forza direttamente nel nostro cervello senza che alcuna azione da noi comandata sia necessaria. Sapremo e basta… automaticamente.

Prima di allora, però, vorrei soffermarmi su alcuni problemi diversi ma collegati tra loro. La crisi dell’informazione è vecchia quasi un secolo, da quando, cioè, la televisione ha offerto alle persone una modalità di fruizione totalmente passiva, unidirezionale, di contenuti. Però resisteva una sacca importante di lettori di giornali che si impegnavano un po’ di più quantomeno nel cercare le notizie, leggerle e, magari, elaborarle.

Poi è arrivato internet, che ha fornito a tutti la possibilità di fruire di contenuti di ogni tipo, con il primo, grande, problema della impossibilità di verificare le fonti. Ciò che l’utente trova su internet, infatti, può essere stato scritto a casaccio da un qualsiasi internauta e contenere castronerie che, tuttavia, possono sembrare ufficiali e credibili, per via che vengono da un mezzo di comunicazione telematico.

Da ultimo, mazzata finale, arrivano i social network, dove tutti possono dire la propria su tutto, tutti si improvvisano divulgatori, giornalisti ed esperti, senza, spesso, averne alcun titolo. Ma chi legge o vede o ascolta, non lo sa e spesso assorbe contenuti e informazioni del tutto errate, spesso volutamente, creando un gigantesco problema di disinformazione globale.

Non che sui giornali vengano scritte solo verità scientifiche, ma quantomeno sono scritte da un giornalista, che si spera si sia formato per fare quel lavoro, che verifica le fonti (quasi sempre), che passa per il confronto e il controllo da parte di colleghi e capi e che, soprattutto, rischia la denuncia o sanzioni in caso faccia male il suo lavoro o disinformi. E non è poco.

E badate che questo problema non è interno al settore giornalistico, per cui di parte. Qui si parla della formazione e della vita quotidiana di un’intera società che basa la propria conoscenza e la propria esistenza su una massa incontrollata di informazioni che non hanno alcun controllo e le conseguenze potrebbero essere devastanti su ogni fronte.

Faccio qualche esempio per far capire le ricadute pervasive e diffuse su ogni ambito della nostra vita. La netta diminuzione delle campagne vaccinali in Italia, con la conseguente ricomparsa di malattie una volta debellate è frutto, in moltissima parte, di disinformazione fatta tramite social. Le ricadute, quindi, non sono solo culturali ma anche sanitarie, di sicurezza pubblica e, da ultimo, anche economiche visti i costi ricadenti, poi, sul sistema sanitario.

Altro esempio sono le bufale web, ormai vera e propria emergenza mondiale su cui anche i colossi dell’informazione telematica si stanno interrogando e su cui cercano soluzioni assieme ai governi di alcuni Paesi illuminati, segno evidente che il problema è più imponente di quanto si creda. Quanti episodi di aggressioni, ad esempio, si sono verificate contro determinati soggetti rei, secondo la rete, di qualche colpa che, invece, era totalmente infondata? Quindi anche un problema di ordine pubblico.

E potrei continuare a segnalare ambiti in cui questo fenomeno ha ricadute importantissime. Senza considerare che da dieci anni a questa parte le nuove generazioni che si stanno formando e che a breve saranno la classe dirigente dell’intero pianeta, sono caratterizzate da una estrema povertà intellettuale e da una superficialità dilagante che li porta a conoscere poco di tutto in maniera davvero insufficiente per garantire una media conoscenza della realtà che ci circonda.

Da ultimo voglio segnalare un post che ho molto apprezzato, di un caro amico e collega giornalista, Tarcisio Tarquini che, commentando la morte del quotidiano cartaceo L’Unità, ha dichiarato che ha rinunciato da qualche mese ai numerosi abbonamenti digitali ai giornali, anche se erano comodi ed economici e l’ha fatto per una sola ragione, una riflessione sul come lui abbia imparato a sentire la lettura dei giornali una necessità quotidiana, “un modo di stare nel mondo a occhi aperti”.

«I giornali a casa li comprava mio padre che, dopo averli sfogliati, li lasciava sul mio tavolo, o su un mobile, o sul mio letto – la domenica quando me la prendevo comoda e lui era già uscito per assolvere a quest’obbligo “hegeliano” di recarsi all’edicola e rientrare a casa con i quotidiani, arricchiti dai supplementi dei giorni festivi. Quei giornali li leggevo io, li guardava di sfuggita mia madre, incuriosivano le mie sorelle più piccole, erano un piccolo patrimonio di notizie e commenti che ci dividevamo e condividevamo.

I miei figli, la mia famiglia, non hanno goduto (o non hanno goduto più) di questa abitudine, il mio tablet è rimasto un oggetto privato, incapace di mettere in moto quel rapporto circolare che, come nella dialettica, si arricchiva in ogni passaggio di una riflessione, un commento, un’imprecazione. I miei figli, Ginevra e Mario Vito non hanno letto i giornali sul mio tablet, non è previsto dal codice del mezzo e, certamente, il nostro dialogo non ne ha tratto né giovamento né alimento».

Con questo chiudo questo lungo ma, tuttavia, incompleto e parzialissimo commento che, per le ragioni di cui sopra, leggeremo in due, io e l’amico-collega Alessio Porcu che me lo ha “sollecitato”.

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