Uomini in guerra, solitari nella folla: con le loro paure ed i loro eroismi. Ci furono centinaia di eroi a Montecassino. Sotto ogni bandiera. Ma sono eroi dimenticati.
Le tracce della linea Gustav ci sono ancora, sulle montagne, lì dove finisce la tua valle. C’è sempre il fiume Rapido, che d’estate è un rivolo e d’inverno si gonfia e si arruffa, nervoso, ostile, cattivo, come un dio che spazza le ambizioni degli umani. Fu lui a frenare le truppe alleate del generale Clark, mentre le mitragliatrici tedesche facevano mattanza.
Sono passati settantacinque anni dalla battaglia di Montecassino, le cicatrici segnano la città, come un corpo dilaniato e ricostruito da un chirurgo maldestro. Qui ci fu il fronte italiano della Seconda guerra mondiale, eppure Cassino è sempre un po’ ai margini della mappa sacra della Repubblica. Non è il Carso, non è il Piave, non è via Rasella o Piazzale Loreto, pochi raccontano il sangue di questi monti. Si ricorda con un certo fastidio anche quello che accadde dopo, nonostante Moravia e De Sica e il volto di Sophia Loren, gli stupri dei vincitori, le «marocchinate». Forse perché fu una guerra straniera sul suolo italiano e senza Resistenza, senza partigiani, senza rossi e neri. Cassino è il cimitero degli altri.
Eccone uno. Lo vedi lungo la strada, dopo una curva, in un quartiere di Cassino non molto lontano dal casello dell’autostrada. Si chiama Folcara e ancora porta i segni di quella che un tempo era campagna. Poco più in là c’è l’università. Il cimitero del Commonwealth è qui e per trovarlo non basta un navigatore satellitare, devi chiedere e molti risponderanno: «Mai sentito». Oppure: «È qui da qualche parte». Quelli che lo conoscono non vivono qui. Vengono magari dalla periferia del Tamigi, dalla contea di Surrey, a sud di Londra o da Porirua, la città delle due maree, a venti chilometri da Wellington o da qualche sobborgo di Nuova Delhi.
Le lapidi sono una fila bianca, come una brigata, divisa in quattro battaglioni. I morti sono 4.266, 284 non hanno più un nome, militi e ignoti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani, sudafricani, pachistani, nepalesi e un soldato dell’Armata Rossa. Tutti sono sepolti all’ombra lontana, lassù, dell’abbazia, sventrata, stuprata, dissacrata e poi ricostruita, come se la storia si potesse rammendare, perché quel monte racchiude qualcosa di più delle pietre e del marmo. È lì che Benedetto ha scritto la sua regola, il suo «ora et labora», segnando l’inizio del monachesimo, la fuga e il ritorno nel mondo, la rete globale che illumina la civiltà occidentale nell’incertezza dell’età di mezzo. Tutto questo però non consola i morti e forse non interessa neppure più di tanto ai vivi.
L’ULTIMO REPORTAGE
Quello che resta è un cognome su una tomba, la terza a sinistra, in prima fila. C’è scritto C. Bewley e non è un soldato. C sta per Cirillo. È un giornalista, corrispondente sul fronte di Cassino per il Kemsley Newspapers, quotidiano che nel 1959 viene assorbito dal Times. È morto il 18 maggio del 1944. Era l’ultimo giorno della lunga battaglia. Aveva 39 anni. Poche ore dopo i superstiti delle divisioni polacche Karpatia e Kresova fissano la bandiera bianca e rossa a strisce orizzontali sui ruderi dei Montecassino.
È toccato a loro pagare con il sangue il prezzo della guerra, la libertà della Polonia, lì dove tutto era cominciato nel settembre del ’39, con i cingolati di Hitler a schiacciare Varsavia. Il cimitero polacco è proprio sotto l’abbazia. Su una lapide ci sono queste parole: «Abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi all’Italia e i nostri cuori alla Polonia». È la sintesi di quei giorni di maggio.
Il 15 febbraio la casa madre benedettina era stata rasa al suolo. Quando i polacchi il 16 maggio vanno all’assalto del monte per tre volte vengono respinti. A mezzogiorno hanno già perso il 20 per cento delle truppe. Di fronte hanno i paracadutisti tedeschi, duri, resistenti, si battono con fede cieca, spazzano il terreno con le mitragliatrici e i mortai. Vivono sottoterra ed emergono a gruppi per respingere gli attaccanti o morire. I loro cecchini colpiscono i polacchi come uccelli appollaiati sui rami.
Il 17 gli uomini del Wadysaw Anders, che dopo la guerra si rifiuterà di tornare nella Polonia comunista e morirà esule a Londra, ripartono all’attacco della montagna. Aggrediscono la Cresta del fante, scalano la Testa del serpente. Si fanno scudo con i cadaveri dei compagni, sparano contro qualsiasi forma che assomigli anche vagamente all’elmetto di un parà. Quota 593 cade all’alba del 18.
Il primo a mettere piede sulle macerie è un plotone di ulani del Primo Lancieri Podolski. Trovano un gruppo di tedeschi morenti abbandonati dai compagni. Il terreno è tappezzato di papaveri e di cadaveri. Sulle rovine di Montecassino scende il silenzio. Nel cielo di mezzogiorno i lancieri issano al vento la bandiera. Dopo sei mesi la battaglia di Cassino è finita, la strada per Roma è aperta.
È LA MORTE, È LA VITA
Sta in piedi, fermo, in mezzo a un silenzio lieve, con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sulla pelle ha tatuaggi che raccontano la storia di famiglia. Il suo nome è Thomas Tekanapu Rawakata, nel mondo lo conoscono con l’acronimo di TJ. Perenara. È il mediano di mischia degli All Black, la nazionale neozelandese di rugby, ed è lui adesso il leader dell’Haka. Non è solo una danza di guerra. È il corpo che parla e ti dice chi sei. È mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi.
TJ la sente battere dentro, ma questa volta la tiene a bada. Suo zio è sepolto qui. È il 17 febbraio del 1944. Sono le nove e mezza della sera e ovunque si sente il canto del ventottesimo battaglione Maori. «Ka mate, ka ora» (è la morte, è la vita). È il debutto dell’Haka sul suolo italiano. Poi verrà la marcia, contro le mitragliatrici tedesche, con la missione di arrivare oltre la linea, laggiù dove c’è la stazione ferroviaria. Chi non viene falciato si aggrappa alla vita con un corpo a corpo contro il nemico, in una notte senza luna dove non si riconoscono i vivi e i morti.
Su 200 ne resteranno in piedi meno di settanta. Qui, nel cimitero del Commonwealth, c’è un pezzo di Patria, il sangue della Nuova Zelanda. È nella battaglia di Montecassino che si sono riconosciuti come nazione, sacrificando la loro gioventù. Chiunque abbia qui, un nonno, un padre, un marito, un fratello, uno zio viene di tanto in tanto ad incontrarlo, perché tutti i neozelandesi, e soprattutto per i maori, il rapporto con i loro morti non è puro spirito. È carnale. È un abbraccio. Ai morti si fa visita, sempre, anche se sono dall’altra parte del mondo.
THE WALL
Il muro per Roger Waters è il silenzio che ha inghiottito il padre. C’è una fotografia del 18 febbraio 1944. Il tenente dei fucilieri Reali Erich Fletcher Waters sorride accanto alla moglie e tiene in braccio il figlio di cinque mesi. È Roger. È l’unica fotografia che ha con il padre. Per anni e anni lo ha cercato, per capire dove è caduto, dove è sepolto. Qui a Cassino c’è il suo corpo, anche se è morto ad Aprilia, dopo lo sbarco di Anzio.
Nel cimitero del Commonwealth la leggenda dei Pink Floyd torna ogni tanto a parlare con il padre che non ha conosciuto: «Voglio essere nella trincea della vita. Io non voglio essere al quartier generale, io non voglio essere seduto in un albergo da qualche parte a guardare il mondo che cambia, voglio cambiarlo io. Voglio essere impegnato. Probabilmente, in un modo che mio padre forse approverebbe».