Il Carroccio arranca sul premierato forte, ma c’è la “carota” dell’autonomia

Lega semi scettica sulla madre di tutte le riforme ma "adescata" in Senato con quella a cui Salvini e Calderoli tengono di più

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il claim di Mario Abbruzzese è “Avanti!”, dove quell’esclamativo finale emenda il termine da quel vago sapore retrò di socialistese pop alla Peppino Paliotta dei primi anni ‘90. Gli anni di gloria in cui l’allora assessore regionale all’Agricoltura reduce dal famoso “duello interno” con Alfredo Pallone scriveva personalmente ai cittadini-elettori di target. E lo faceva esordendo con un accattivante “caro olivicultore”. Ed uno dei post più seguiti di Abbruzzese sui social è stato quello in cui il presidente della Commissione Speciale Riforme Istituzionali presso il Consiglio Regionale del Lazio parla del premierato “alla Meloni”.

Eccolo: “La riforma costituzionale voluta dal centrodestra unito segna il tramonto dell’era degli esecutivi nati da manovre di palazzo : il Presidente del Consiglio sarà eletto dagli italiani”. Tutto bene sul fronte Carroccio quindi e si tira dritti a braccetto su una cosa che a Matteo Salvini garba e di molto? Non proprio, ma la soluzione pare sia stata provata.

Il post di Abbruzzese e lo stato dell’arte

Mario Abbruzzese

Recap breve: l’annuncio della Meloni di voler riformare la Costituzione via Parlamento (difficile) e via referendum (rischioso) in senso dirigista era stato digerito poco e male anche dagli alleati. Forza Italia aveva storto il naso ma siccome esprime un vicepremier più omologato su Palazzo Chigi come Antonio Tajani, aveva ingoiato e mandato giù.

La Lega esprime il vicepremier due. Che in quell’annuncio aveva sì colto il retrogusto di “cazziatone” all’Europa e ci aveva goduto, ma non del tutto. Il senso è che la Lega, che è più cesarista di FI da quando gli azzurri hanno perso il loro “Cesare brianzolo”, non ama essere spiazzata da una premier in modalità “faccio tutti io”.

E si vede. Si vede al punto che il Carroccio non si sta spendendo più di tanto per “spingere” la riforma della premier. La comunicazione social e mainstream sul tema è stata basica e risicata. Ed a contare che proprio i social sono perno e megafono grosso-iperbolico della comunicazione di Salvini non siamo di fronte ad un sentore, ma ad un dato tecnico. La sola mossa che il Capitano, che non è affatto gonzo, ha saputo fare in ordine al tema premierato è stata quella di considerare quel punto in agenda come complementare e in endiade con una cosa a cui invece la Lega tiene moltissimo. Qualcosa su cui è stata lanciata un’esca.

L’esca delle Autonomie

Roberto Calderoli © Imagoeconomica

Cosa? L’altra riforma, quella sulle autonomie che ha in Roberto Calderoli un papà ed in Salvini un esecutor. Spieghiamola: bisognava legare i due temi ancor più, in modo da legare la forza che nella loro perorazione va messa risultasse equalizzata. Perciò si è partiti dal Senato per quel che vuole Meloni in modo da far coabitare istituzionalmente ciò che la premier desidera e quello che invece vuole Salvini. Così non ci saranno atteggiamenti-lumaca voluti e se spingi per una cosa a cui tieni lo fai anche per quella di cui ti frega poco.

Insomma, è come quando su una barca persa nella burrasca ci metti uno che non è marinaio. Quello non saprà governare le vele e magari rema al contrario se il mare è calmo, ma con le onde alte le sue sono di sicuro e quanto meno due braccia in più per svuotare la sentina col secchio. Ci si guata a vicenda e si procede, se non in armonia almeno in cooperazione forzosa, ognuno a modificare quello che ciascuno fortissimamene vuole cambiare. E’ una manovra sottile ed un po’ disperata al contempo, ma di questi tempi l’alleanza di destra centro è stata messa troppo alla prova per potersi affidare solo a roboanti intenti fiduciari.

Strette di mano con la colla

A Palazzo Chigi ormai non ci si limita più a stringersi la mano, ma si fanno piani per mettere la colla da falegname sui palmi. Il Foglio l’ha spiegata bene: “Facciamo partire l’iter della riforma costituzionale dal Senato. Ovvero nel ramo del Parlamento in cui è già incardinato il progetto sull’autonomia”.

E “nella stessa commissione Affari costituzionali a cui mancano un paio di articoli e la quantificazione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) per il testo definitivo”. Il risultato in questo modo sarebbe quindi al sicuro. Perché “l’avanzamento in parallelo dei due dossier” sconsiglierebbe al Carroccio “di metterci quel sovrappiù di inerzia per far caracollare una riforma in cui, in fondo, non ci credono granché. Non è una loro priorità”.

Un Candiani papale papale

Avevano fatto fede agra anche le parole del deputato leghista Stefano Candiani, uno che seguirebbe Salvini anche nell’aula bunker di Palermo a piedi e sui ceci. “Le riforme istituzionali sono pericolose per chi le fa. Guardate che fine ha fatto l’ultimo che ci ha provato: Renzi.

Il dubbio è quello amletico che a dire il vero non è solo dubbio leghista. Chi glielo fa fare alla Meloni di mettersi da sola nel trappolone di un referendum che a suo tempo affondò lo strabiliante 40% europeo del fu golden boy di Rignano? Senza contare che la mistica della legittimazione popolare a tutti i costi aveva dato al M5s un 30% di cui aveva fatto scialo anche senza forzatura costituzionali.

Quindi non si capisce perché adesso debba tornare così “santa” solo perché è claim del destracentro che all’uno vale uno dei M5s attribuisce tutti i mali del mondo. La verità che nessuno vuole dire è che nelle democrazie mature al “popolo” si concede diritto di delega, non si appalta tutto il “cucuzzaro”. Sennò capita che il popolo fa guai grossi.

Il pericolo di un test personale

Matteo salvini e Giorgia Meloni (Foto © Imagoeconomica)

E c’è un elemento tecnico che dà peso allo scetticismo comune ed in particolare leghista. Il dibattito sul tema potrebbe essere tanto lungo da logorare rapporti e singoli partiti, tra cui la Lega. Un partito peraltro che ha già tatuato a fuoco il mezzo flop del referendum sulla giustizia, e che è quello che se la rischia di più o che ha una visione prospettica meno rosea.

Chiariamola meglio: la sfida della presidente del Consiglio potrebbe trasformarsi in un test di gradimento attivo per l’intero Governo. E la Lega non ci sta a fare la strada di quelli che scrivono la Storia in negativo, perché sa che l’altra strada, parallela e possibile, è quella riservata ai capitoli sui grandi suicidi politici. Una cosa è l’autonomia e il terzo mandato ai sindaci, un’altra è incarognirsi sulla figura del “Sindaco d’Italia”. Calderoli, che è intelligentissimo e “scafato”, sa benissimo che il passaggio parlamentare non sarà sufficiente.

“Chi glielo fa fare, a Giorgia?”

Matteo Renzi (Foto: Marco Ponzianelli © Imagoeconomica)

Perciò si andrà di referendum e lì potrebbero arrivare guai serissimi. E per una cosa che tutto sommato sta più nell’agonismo personale di Meloni che nei desiderata del Paese reale. Insomma, Giorgia vuole prendersi le misure più di quanto non voglia consegnare stabilità al Paese.

Perciò in molti non ci stanno, a seguirla sul ciglio di lancio per un bungee-jumping con la corda logorata. Perché poi può succedere che quel popolo che credi stia tutto con te alle fine con te non ci stia del tutto.

E che il meccanismo relativista per cui oggi a governare ci sono Meloni & co. diventi un boomerang. E torni dritto sul muso di chi considerava almeno il primo mandato una passeggiata. Senza mine, e soprattutto senza la spoletta dell’egotismo. Quella che fece saltare in aria Renzi non tanto tempo fa, facendo del suo successo un picco prima di un tonfo e non una svolta. O magari un precedente da cui trarre insegnamento.