Mancano 90′ e ne è valsa la pena (di E. Ferazzoli)

Mancano novanta minuti alla fine di una stagione iniziata senza stadio, senza più il Matusa, con una nuova casa che ci ha messo poco a farsi sentire davvero casa. Mancano 90 minuti alla fine di una stagione in cui il conto dei rigori contro è il doppio di quelli a favore. Mancano novanta minuti. E c'è una sola certezza: ne è valsa la pena.

Elisa Ferazzoli

Giornalista in fase di definizione

Abbiamo pianificato agende, chiesto permessi al lavoro, vissuto settimane interminabili, puntato la sveglia presto con la stessa ansia di una gita scolastica, trascorso notti insonni aspettando che quella sveglia finalmente suonasse.

Abbiamo detto addio al Matusa, circospetti siamo entrati in quella meraviglia ingegneristica che lo Stirpe rappresenta ma col timore che la bolgia della Curva Nord non trovasse posto in una cornice così composta. C’è voluto un po’, prima di sentirci veramente a casa; c’è voluto il big match col Venezia, lo svantaggio, la pallonata orgogliosa di Dionisi verso la panchina avversaria, il destro a giro di Maiello, il tacco di Citro. Su e giù per l’Italia, abbiamo esorcizzato le nostre paure cantando, stretto nuove amicizie tra un Caffè Borghetti sugli spalti e un pranzo tutto ciociaro all’autogrill di turno.

Siamo tornati a casa senza voce ora col sorriso stampato in faccia ora con lividi e ossa rotte ma mai, nemmeno per una volta, abbiamo pensato che fosse stato tempo perso.

 

Dagli spalti di mezza Italia, li abbiamo visti esultare. Compiere prodezze. Strappare tre punti all’ultimo minuto. Non arrendersi di fronte ad un 3-0 ed avere ragione. Ce la siamo presa con la malasorte per la collezione di pali e con l’arbitro per i rigori negati: il Frosinone guida la classifica con 10 rigori subiti, il doppio rispetto a quelli avuti a favore. Abbiamo inveito contro la scarogna più nera ogni volta che uno dei pilastri di questa squadra lasciava il campo su una barella alterando così equilibri di gioco, schemi tattici e la tranquillità di Longo.

 

Li abbiamo visti fragili e smarrititi mancare ad appuntamenti cruciali; cadere sotto i colpi cinici degli avversari e della vita; impotenti e soli incassare fischi e critiche. E poi … risorgere, ricominciare a correre, rivendicare un finale di campionato all’altezza del proprio valore umano e sportivo.

 

Non è stato solo calcio. Non lo è mai. C’è la vita in quei 90’, c’è la storia di ognuno che intrecciandosi con quella di altri crea emozioni e ricordi da custodire, c’è la forza di non spezzarsi di fronte alle botte che il destino riserva, la fatica di reagire agli urti, la meraviglia di riscoprirsi più forti di prima.

 

La chiamano resilienza. Quella capacità di autoripararsi dopo un danno: come il Frosinone, come Federico Dionisi. Perché ci sono infortuni che appartengono alla sfera impalpabile dei sentimenti, che non possono essere aggiustati da luminari della medicina, non godono di periodi certi di recupero ma hanno bisogno di tempo, pazienza e fiducia reciproca. Quando sabato Federico ha sistemato la palla sul dischetto e portandosi la mano sul cuore ha guardato la curva si è assunto il rischio di poter sbagliare, ritrovando dopo mesi la consapevolezza della reciprocità di quella mano sul cuore. Ma non sarebbe un fuoriclasse se non rendesse facili le cose più difficili e viceversa. Così quando 11’ dopo il rigore paratogli da Paroni, ha raccolto il passaggio di Brighenti ed è partito in velocità tutti hanno avuto un’unica certezza: era lui, era quel giocatore superbo e fulmineo che tanto amiamo, era il goal del vantaggio, era Federico Dionisi.

 

Manca una sola giornata, mancano 90’ alla fine del campionato. Non è momento questo di fare pronostici. Ma una cosa è certa: ne sarà valsa la pena.

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