Pentirsi non è una scusa e giudicare non è una prerogativa di tutti

Giudichiamo, sappiamo dire, senza avere mai dubbi, chi sia il colpevole e chi l'innocente. Il valore assoluto e mostruoso di un'opinione pubblica che sembra escludere ogni possibilità di ravvedimento e perdono

Pietro Alviti

Insegnante e Giornalista

Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.

E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà

Ez. 18, 26-28

Il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il pentimento e il perdono, il coraggio di cambiare, il coraggio di perdonare. Se ci facciamo caso, queste dimensioni sono sempre presenti nella nostra esistenza, sia che vadano a finire sulla cronaca nazionale o nel tritatutto dei social, sia che appartengano alla nostra vita quotidiana.

Senza andare in pasto all’ ”opinione pubblica” che il più delle volte spara sentenze senza conoscere quasi nulla dei fatti che commenta. Insomma, siamo abituati a giudicare, sappiamo dire, senza avere mai dubbi, chi sia il colpevole e chi l’innocente, non abbiamo bisogno delle lente procedure dei processi giudiziari, che ci fanno anche inorridire.

La sensazione a pelle di colpevolezza

Il carcere borbonico di Santa Maria Capua Vetere

E come ci inalberiamo quando le sentenze di quei lunghi processi non corrispondono alla sensazione che ci siamo fatti “a pelle”. Accadde con il verdetto sul barbaro assassinio della povera Serena Mollicone. (Leggi qui: Quelli che volevano un mostro ad ogni costo. E leggi anche Perché li hanno assolti: le fake sul caso di Serena).

Ma Ezechiele, come di solito fanno i profeti, ci rompe le uova nel paniere. Se un “buono” si allontana dalla giustizia tanto da prendere la strada della morte (ricordate il peccato mortale?) appunto morirà, nonostante abbia fatto tante cose buone. E invece, dice ancora quel rompiscatole di Ezechiele, se un “cattivone” si converte e compie ciò che è giusto, egli vivrà, nonostante tutto il male che ha compiuto.

Spesso questa cosa ci dà molto fastidio, quando pensiamo a chi riesce a cambiare la propria esistenza, dopo aver commesso delitti terribili. Immediatamente ci viene in testa che quel pentimento, Ezechiele lo chiama “riflessione”, sia invece tutto un trucco per evitare la pena.

La tradizione giuridica occidentale dovrebbe essere la prima a rallegrarsi di fronte a tali conversioni, che mostrano il successo del recupero affidato alla pena, che avrebbe proprio questo scopo, come sostiene anche la nostra Costituzione. Non accade spesso ma accade, soprattutto se le persone in carcere incontrano chi sia in grado di aiutarli.

In carcere ci si ammazza perché non c’è aiuto

Purtroppo il numero crescente dei suicidi nelle strutture detentive dimostra quanto questa possibilità sia limitata. Ma Ezechiele vuol farci capire che anche il peggiore di noi, se “riflette”, può modificare la sua vita, può lasciare la strada che porta alla morte per imboccare quella che porta alla vita, anche se fino ad allora ha fatto le cose peggiori.

Purtroppo spesso ci lasciamo condizionare dalle grida “forcaiole” che chiedono pene immediate, sempre più anni di carcere, come se l’aumento degli anni previsti dal codice penale possa diventare un deterrente per chi delinque. Sappiamo benissimo che non è così. Le pene non spaventano i delinquenti che invece devono trovare davanti a loro una società che è pronta a sbarrare la strada al crimine ma anche disponibile ad accogliere quell’attitudine a riflettere.

Così ben rappresentata dall’evangelista Luca nella parabola dei due figli, quando il più piccolo, dopo aver dilapidato tutta la sua parte di eredità ed essere finito nell’abiezione delle peggiori esperienze, scrive Luca, tornò in sé e decise di tornare da suo padre. 

(Leggi qui tutte le meditazioni di Pietro Alviti). 

(Foto di copertina © DepositPhotos.com).