Hanno avvelenato la Valle del Sacco: condannateli a 2 anni

Il processo per l'avvelenamento della Valle del Sacco. L'Accusa chiede due anni per gli imputati. E sottolinea: il problema non era la produzione del beta-HCH. Ma non avere impedito che uscisse dagli argini in cui doveva rimanere. E poi il latte...

Condanna a due anni per il reato di disastro ambientale innominato. È la richiesta formulata dalla Pubblica accusa ai giudici del Tribunale di Velletri impegnati nel processo per l’avvelenamento della Valle del Sacco. Ha chiesto di dichiarare la colpevolezza di Giuseppe Zulli, Carlo Gentile, Giovanni Paravani e Renzo Crosariol; insieme a loro, rispondono del danno anche la Centrale del Latte di Roma ed il Consorzio Servizi Colleferro.

La moria di bestiame nella Valle del Sacco

Al termine della requisitoria della Pubblica accusa hanno parlato gli avvocati delle parti che si ritengono danneggiate e per questo reclamano un risarcimento. Hanno depositato e discusso le proprie conclusioni, presentando le richieste economiche. Tra queste, la più alta è stata avanzata dal Ministero dell’Ambiente: ha chiesto un risarcimento di 16 milioni di euro per i danni patrimoniali, più altri 10 milioni per i danni morali. Un totale di ben 26 milioni di euro per “la bonifica del territorio e il suo ripristino“.

(Leggi qui l’udienza precedente: Processo Valle del Sacco: «Il latte non venne ritirato dopo la scoperta dei veleni»)

La requisitoria

L’intervento del Pubblico ministero è partito dai primi passi dell’inchiesta. Nata ad aprile del 2005: fu la Asl a segnalare una concentrazione anomala di betaesaclorocicloesano nel latte prodotto dagli allevatori nella Valle del Sacco. Il beta-HCH è un derivato della produzione del lindano, un insetticida che veniva ampiamente usato durante gli Anni ‘60 e ’70. E che venne vietato a partire dal 1978.

Per l’Accusa si è in presenza di una “gravissima contaminazione“. Tale da giustificare giuridicamente il disastro ambientale. Per sostenerlo – ha detto nella requisitoria – deve essere considerato “lo stato d’emergenza proclamato per la Valle del Sacco nel maggio del 2005 e prorogato fino al 31 ottobre 2012“; e poi deve essere considerato anche “l’inserimento della Valle del sacco tra i Siti di Interesse Nazionale (Sin)“; il terzi elemento da tenere a mente sono “gli illeciti ambientali registrati nell’area Caffaro già nei primi Anni 90“.

I limiti di legge

L’area interdetta

Il Pubblico ministero poi si è concentrato sulle consulenze portare dai difensori. Avevano contestato le misurazioni fatte dall’Arpa, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente. Sostenevano che non fossero corretti i limiti di legge per il beta-HCH utilizzati da Arpa nelle rilevazioni. Invece per l’Accusa il limite può essere individuatoanche senza riscontri scientifici specifici. Nel caso di specie – ha precisato – queste verifiche tecniche sono state condotte, sulle acque, sul latte e sui terreni, dall’istituto zooprofilattico, da Arpa e Ispra“.

Altro capitolo della requisitoria. Da dove veniva la contaminazione. I sospetti si sono concentrati sulla rete delle acque bianche in area Caffaro. Per gli avvocati difensori però non può essere quello il canale di diffusione. Invece il Pm ha confutato le posizioni della difesa “non avendo fornito“, i consulenti di parte, “una plausibile spiegazione tecnica alternativa su come dette sostanze siano pervenute nelle acque del Sacco”. Traducendo dal linguaggio giuridico: se l’inquinamento non veniva da lì mi volete spiegare da dove poteva venire altrimenti?

Il passaggio chiave

Il passaggio chiave è un altro. «La condotta incriminata – ha sottolineato l’accusa- non è l’aver immesso lindano in fase di produzione e smaltimento. Ma nel non aver impedito, nelle rispettive competenze degli imputati, la sua successiva immissione nelle acque meteoriche e fluviali, che perdurava, con picchi anomali, anche al momento dei controlli di Arpa Lazio».

In altre parole: il problema non sta nel beta-HCH ma nel non avere impedito che poi uscisse dagli argini in cui doveva restare confinato.

L’accusa evidenzia altri due punti. Il primo: Arpa nel 2007, “durante alcuni scavi ha scoperto scarichi” fino ad allora sconosciuti. Il secondo: non c’è altra spiegazione logica per la diffusione del Beta-HCH se non con “l’abbeveraggio e l’irrigazione dei campi a ridosso del fiume dove gli animali erano allevati“.

Il latte ed i controlli

Il tribunale di Velletri, competente per territorio

In una delle udienze precedenti, il direttore dello stabilimento della Centrale del Latte di Roma Giuseppe Zulli, aveva spiegato perché non era stata coinvolta la Asl nel momento in cui alcune analisi avevano rilevato le alte concentrazioni nel latte. Aveva detto che il latte contaminato di alcune stalle, una volta messo insieme a quello degli altri allevamenti, rientrava nei parametri di legge. Ed aveva specificato che si era trattato di “diluizione involontaria“. (Leggi qui l’udienza precedente: Processo Valle del Sacco: «Il latte non venne ritirato dopo la scoperta dei veleni»).

Su questo punto la Pubblica accusa ha rilevato: “Avrebbe dovuto informare l’autorità sanitaria e attivarsi per il ritiro dal commercio dei lotti contaminati. Invece, sono state prese decisioni sulla base di personali valutazioni sulla sussistenza di rischi immediati per la salute pubblica”.

In particolare– ha aggiunto- sulla base di criteri, come quello della media ponderale, opinabili perché non codificati da normative tecniche di settore e frutto di una scelta discrezionale“. Tradotto: va bene sta storia della diluizione ma non sta scritto da nessuna parte che andava fatto così.

Ma è velenoso o no?

I controlli di Arpa Lazio sul beta-HCH nella Valle del Sacco

Un altro dei temi sui quali ci si è divisi nel corso di questi anni è se il beta HCH sia velenoso per la salute umana. È un punto sul quale hanno battuto anche gli avvocati di alcuni cittadini che il derivato del lindano ce l’hanno nel sangue e per questo hanno chiesto risarcimenti fino a 250mila euro.

«È un elemento necessario per valutare l’esistenza del disastro ambientale– ha detto il pm- Nel luglio del 2015 il dottor Blasetti del Servizio Prevenzione della Asl Roma G ha confermato le potenziali gravi conseguenze della sostanza sul sistema neurologico, cardiocircolatorio, endocrino, immunitario, riproduttivo e renale. Ricordando che il beta-HCH è di difficile espulsione. Studi epidemiologici confermano che può produrre effetti nocivi anche gravi sulla salute umana» ha ricordato l’Accusa.

Negare che nel bacino del fiume Sacco si sia verificato un disastro ambientale, per il Pubblico Ministero «significa negare un fatto storico documentato da analisi tecniche, da una serie di provvedimenti adottati dalle competenti autorità e anche da una sentenza in materia di danno ambientale».