Quando l’Italia “si separò” dal Vaticano: con la legge sul divorzio del 1970

Un inizio dicembre di 53 anni fa che segnò la prima di alcune tra le tappe fondamentali della società come l'abbiamo trovata oggi. I numeri della provincia di Frosinone. Dove si divorzia di più e dove le famiglie resistono.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Ci sono leggi umane che perfezionano cose e leggi che le cose le aggiustano fin nell’intimo delle storture. Regole sbilenche che con la loro soppressione poi cominciano a lasciare spazio per una vita migliore. Ecco, nell’Italia di fine anni ‘60 di cose da raddrizzare ce n’erano molte. Ma la maggior parte di loro era relegata a luoghi dove prima della vita vera stazionavano sornioni il concetto per parte speculativa e il mondo del lavoro per parte empirica.

Una cosa era darsele coi poliziotti a Valle Giulia o fare volantinaggio davanti alla Siemens, un’altra era sapere che il tuo matrimonio era finito ma che per te non sarebbe finito mai. Perché era un vincolo che non prevedeva scioglimenti e perché l’Italia, quell’Italia, aveva il Vaticano in seno. Cioè, piaccia o meno, la concrezione di massimo sistema di un apparato religioso che proprio non lo ammetteva, che ciò che Dio ha legato potesse esser sciolto dall’uomo.

Il solito guaio colato via da cento brecce di Porta Pia che avevano minato, ma non demolito quel legame strettissimo fra modelli sociali e regole fideistiche.

I tempi maturi per dare una svolta

Una manifestazione del 1962 per il divorzio

Ma alla fine degli anni ‘60 i tempi erano maturi anche per un Paese che nei suoi legiferati procedeva con lo stesso passo pigro e salmodiante delle sue innumerevoli processioni. I tentativi dell’epoca risorgimentale, tutti abortiti, di far varare una legge che consentisse a due persone di riprendere ciascuna la propria via, erano un precedente greve. Ma sì, quelli erano tempi diversi, e la lunghezza dei peli non si misurava più a favoriti da fine ‘800, ma a zazzere pop.

Ed il perché era evidente: il tessuto sociale di quell’Italia brulicava di tensioni e grandi temi. E il primo di essi, anche se ammantato di vernice intellettuale, era che i ricchi potevano fare cose che i poveri neanche si sognavano. Cose come adire la Sacra Rota, cioè un tribunale foresto ma competente sul tema, e pagando fior di avvocati mettere fine ad una vita di coppia diventata tossica. Un operaio o una bracciante no, non lo potevano fare, né rifarsi una vita come esercizio massimo di un diritto che oggi pare naturale.

La Sacra Rota sì, ma solo per i ricchi

La sede della Sacra Rota

E siccome divorziare dall’integralismo religioso in quegli anni era meno difficile che farlo dall’incedere della Storia il primo dicembre del 1970 la Legge 898, la “Fortuna-Baslini”, divenne una realtà normata. Fu un Parlamento molto eterogeneo a dar vita a quella che asetticamente venne chiamata “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”. Dietro però di asettico e austero c’era molto poco. In un’Italia ancora per gran parte rurale la coabitazione forzosa di vite che non agivano più su un unico piano spesso sfociava in drammi e tragedie.

La violenza domestica, che del tetto tiranno è la figliastra malevola, colpì soprattutto le donne. Coabitare malgrado non ci si ami più può essere una maledizione, ma con capacità di reazione distribuite in maniera non omogenea. Gli uomini erano ancora per più parte fieri totem del modo del “masculo. E le situazioni che spesso derivavano dalla perduta empatia o che la innescavano avevano le tetre possibilità di sfociare nel sangue.

Il delitto d’onore, il paleolitico 587 Cp, era disapplicato da soli 6 anni, dopo il caso Furnari-Catena, e solo nel 1981 sarebbe stato resettato dai Codici. Insomma, con la legge sul divorzio, anche a contare sfumature meno truci e più di sistema, cadde un tabù grosso assai. Si stava sbriciolando l’impalcatura patriarcale che oggi ha lasciato refoli e cisti tenaci, ma che allora pesava come ghisa sparsa in ogni ambito della vita civile.

Favorevoli e contrari alla legge 898

Frame da ‘Matrimonio all’Italiana’

Il principio precedente era: sposarsi una volta era una scelta di vita che la vita la comprendeva tutta. Quello dopo l’approvazione della legge fu una rivoluzione copernicana. Cioè, sposarsi era un tentativo da cui in date condizioni era possibile recedere. Chi votò a favore? Partito Comunista, Partito Socialista, Partito Socialista Democratico, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e Partito Liberale Italiano, quest’ultimo unico non di sinistra ma in pieno rigurgito di tigna post risorgimentale.

E chi si oppose? Democristiani, missini e monarchici, vale a dire lo starter pack di quelli che una volta erano definiti “partiti-chierichetti”, sia pur con diverse sfumature di approccio al Vaticano ed allo specifico tema. Ma non era finita, perché quelle ridotte innalzate contro il divorzio dietro avevano un’ultima barricata normativa. E chi il divorzio proprio non lo voleva ci si inerpicò sopra. Un referendum abrogativo è esattamente lo strumento perfetto per provare ad impugnare la volontà popolare prevalente ma dietro delega parlamentare e “cassare” una legge non in linea con la rotta politica che si vuole affermare.

Le norme che istituivano il referendum con la legge n. 352 erano proprio di quell’anno, il 1970, che per paradosso e nel nome di una sterzata legislativa più equalizzata sul popolo aveva uno scopo opposto. Quello di impedire l’applicazione della più popolare e giusta delle leggi. I conservatori si giocarono la carta della iniziale riottosità di Socialisti e Radicali nel mettere la legge “alla prova”.

Come di blocco, caro prog: con un referendum

Quella ed un timing che portò la consultazione popolare a svolgersi 4 anni dopo, il 12 maggio del 1974 e dopo qualche vano tentativo della Dc di far “cadere” la legge in Parlamento. Il lavorio dei partiti avversi fu una delle opere di demolizione più fallimentari della storia repubblicana, lo fu perché fondava su un presupposto errato. Dc & co. credevano che avere molto tempo a disposizione equivalesse ad avere margine di manovra, specie per consentire la stessa al mondo cattolico, alle parrocchie ed alle amministrazioni locali di migliaia di comuni-campanile.

Ma quelli erano gli anni ‘70, anni cioè dove con cadenza praticamente mensile un nuovo tassello, una nuova questione ed una nuova coscienza pubblica andavano a fare massa critica per consegnare a se stessa un’Italia più prog.

La televisione si stava affermando, già vagiva un timido ”mainstream” e tutti capirono che quella di potersi separare era un’opportunità da cogliere, non un’eresia da scansare. L’87,7% degli aventi diritto disse e scrisse la sua. E il 59,3% disse no all’abrogazione della legge e sì al divorzio legale.

L’illusione di farcela contro la Storia

Il 40,7% si espresse per l’abrogazione ma restò al palo di un esercizio di democrazia che in troppi credevano essere abile arruolato dalla loro parte. In quattro anni la società era cambiata e quell’Italia ancora in bianco e nero si consegnò al nuovo mondo che l’attendeva. Mondo che andava veloce, tanto veloce che altri 4 anni dopo toccò ad un’altra libertà: quella di abortire. L’idea di famiglia che abbiamo oggi nacque allora, e fu un’eredità tecnica prima che etica.

Perché una legge giusta non solo cambia la società su un fatto, ma la predispone al cambiamento ogni volta che ve ne sia esigenza. E questo non è progresso, è molto di più: è civiltà.

L’applicazione in Ciociaria

L’Annuario Statistico Istat 2022 registra nel 2020 un brusco calo del numero di matrimoni: in gran parte è dovuto all’impossibilità di celebrare le cerimonie a causa del lockdown. I matrimoni celebrati in Italia scendono a 96.841, pari a 87.247 unità in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2020 quasi tre quarti dei matrimoni sono celebrati con rito civile (71,1 per cento).

Le separazioni legali scendono, passando da 97.474 nel 2019 a 79.917 nel 2020; quelle consensuali, come negli anni precedenti, sono in netta prevalenza rispetto alle giudiziali, e rappresentano l’85,3 per cento del totale. I divorzi hanno registrato un aumento marcato tra il 2015 e il 2016, oltre 16 mila eventi in un solo anno, a conferma dell’incremento consistente dovuto all’entrata in vigore a metà 2015 del “divorzio breve”, che ha ridotto il periodo minimo che deve intercorrere tra il provvedimento di separazione e quello di divorzio. L’andamento in diminuzione avviatosi nel 2017 continua anche nel 2020: i divorzi arrivano a 66.662 unità, pari a 18.687 unità in meno rispetto al 2019.

Il focus territoriale lo sviluppa Il Sole 24 Ore. E registra nel 2018 che in provincia di Frosinone Colle San Magno è il comune dove si divorzia meno (lo 0,60% in rapporto ai matrimoni). San Biagio Saracinisco invece è il Comune dove le unioni si frantumano con più facilità: 8,75%. La realtà però è diversa: sono Comuni montani, con pochi abitanti e nel pieno di un processo di spopolamento: in queste condizioni poche unità fanno scattare una percentuale altissima.

I numeri con beneficio

Foto © Stefano Strani

Però i numeri sono numeri. E così nel 2018 San Biagio Saracinisco sta sopra la media nazionale che è del 5%. La superano anche altri 3 centri ciociari Fiuggi (6,1%) e Villa Latina con il 5,25%.

Nell’elenco dei primi dieci Comuni ciociari dove si divorzia di più ci sono anche Settefrati (4,86%), Gallinaro (4,8%), Sant’Andrea del Garigliano (4,76%), Filettino (4,73%), Vicalvi (4,5%) e Atina (4,39%). C’è però un comune denominatore: si tratta di centro ad alto tasso di emigrazione, spesso i matrimoni vengono celebrati nel paese di origine dei genitori. È un modo per poter festeggiare insieme a tutti i parenti. Ma sono famiglie che vivono in Paesi con una mentalità diversa da quella italiana permeata di cattolicesimo e che vive il divorzio in maniera meno traumatica. Frosinone è nel blocco delle prime 10 ed è l’unica grande città con il 4,6%

Le altre grandi città. Dopo Frosinone c’è Arpino con il 4,27%, poi troviamo Cassino con il 4,23% ed Isola del Liri dove la percentuale è del 3,66%. Segue Paliano con il 3,54% e poi Ferentino con 3,37%. Ad Anagni la percentuale è del 3,34% che a Ceprano diventa il 3,32% mentre a Sora è del 3,12%. C’è poi Ceccano con il 2,84%, Alatri con il 2,77%, quindi Pontecorvo dove la percentuale è del 2,23% mentre a Veroli è del 2% ed a Monte San Giovanni Campano scende a quota 1,92%.

Nel resto del Lazio: Latina è al 5,8% (preceduta da Ventotene con il 6,08%) mentre Rieti sta al 4,63% (al primo posti Morro Reatino dove c’è la percentuale del 10,58%). Roma si attesta al 7,6% mentre Viterbo è al 6,81%.

(Foto di copertina © DepositPhotos.com)