Quel Frosinone distante nel quale continuare a credere (di E. Ferazzoli)

Il momento difficile. E le sue origini. Come se le distanze avessero iniziato ad aumentare dall'inizio. Ma nonostante ci siano decine di ragioni contrarie, ne resta comunque una per non arrendersi. E continuare a credere nel Frosinone. Si chiama orgoglio personale

Elisa Ferazzoli

Giornalista in fase di definizione

La prospettiva è sempre la stessa. Stesso posto, stessi colori. Stessi compagni di viaggio e i cori intonati dalla Nord. Di fronte c’è un’immagine confusa, distante anni luce da quel 16 giugno di mille anni fa. Sembra trascorso un secolo eppure sono bastati tre mesi e mezzo per rompere definitivamente con un passato recente e glorioso. È paradossale ma legittimo che i fischi piovano dagli spalti dopo la prima prestazione in grado di registrare diversi interventi del portiere avversario ed il goal numero uno della stagione. L’umiliazione sportiva dell’Olimpico è ancora viva. A latitare è l’entusiasmo. Si è spento piano, col trascorrere dei mesi e delle sconfitte.

 

Che la seconda volta del Frosinone in serie A dovesse inevitabilmente passare attraverso un percorso di rinnovamento era un dato scontato e per molti versi necessario. Ma migliorarsi è cosa assai diversa dal fare tabula rasa di tutto ciò che definisce la natura di un progetto e di una squadra.

 

Uno stravolgimento che è iniziato con una campagna abbonamenti che per la prima volta ha fatto a meno di quel processo di fidelizzazione promosso per anni  dalla società stessa (fino alla stagione precedente) e capace di portare allo stadio sempre più famiglie con bambini.

 

Un’alterazione che è diventata distanza fisica fra chi sostiene quei colori e chi si stava preparando a difenderli ed onorarli in campo. Due mondi che per mesi sono rimasti separati e distinti con la tournée in Canada, gli allenamenti e le amichevoli a porte chiuse. Un gap che ha inciso negativamente sulle motivazioni dei nuovi arrivati, incapaci di percepire quanta fatica e quanto orgoglio ci fosse dietro questa promozione.

 

La snaturalizzazione del Frosinone Calcio ha raggiunto l’apice con la campagna acquisti e cessioni. Perché si è preferito investire sulla quantità e non su una qualità che potesse valorizzare un gruppo già motivato e pronto a dare l’anima per la salvezza. Perché domenica contro il Genoa “la differenza l’ha fatta un calciatore come Piatek, che ha tramutato in rete i due palloni toccati.” E il Frosinone lì davanti non ha un giocatore di categoria cinico, spietato e in grado di fare la differenza.

E vendere Matteo Ciofani a un giorno dalla chiusura del mercato e mettere fuori rosa Sammarco (232 presenze in serie A) dimostra una pianificazione dalla limitata considerazione del fattore umano e del valore agonistico di questi due giocatori.

Perché allo stato dei fatti è evidente che la logica di acquisire il maggior numero di giocatori con un biglietto da visita da Serie A non è bastata a creare una squadra all’altezza di questo campionato.

Perché per raggiungere la salvezza una squadra come il Frosinone non può prescindere dalla forza del gruppo e non è facile motivare giocatori che non hanno la benché minima idea di cosa voglia dire la serie A per il Frosinone e per la sua gente.

Non è solo un caso che i quattro palloni stampati sui pali di mezza Italia vengano dai piedi della vecchia guardia: Ciano, Brighenti e Chibsah.

E non dipende da una beffarda congiuntura astrale se ha prodotto più Daniel Ciofani in 45’ minuti che tutto il reparto offensivo in 6 giornate. Si chiama voglia di dimostrare il proprio valore, prepotenza di contraddire i pronostici, senso del dovere nei riguardi della maglia, del tifo e di se stessi.  E davvero “non si possono attribuire tutte le responsabilità di quello che ci accade alle idee ed alle scelte del nostro Allenatore”. Il più esposto, come sempre.

 

Siamo caduti sette volte, ci rialzeremo otto.

Perchè nonostante ci siano decine di ragioni per smettere di crederci, ne resta comunque una per non arrendersi. E si chiama orgoglio personale.

Non basta l’impegno. Serve di più. Che ognuno ricominci dal rispetto per se stesso e per il lavoro che svolge. La salvezza oggi passa solo da lì.