Ruggero Marazzi, l’angelo nei disastri

Quarant'anni trascorsi sul fronte delle emergenze. dai terremoti alle alluvioni, dagli tsunami alle ondate di profughi. Vita, storie ed emozioni del disaster manager Ruggero Marazzi

Quarant’anni di disastri: dall’Irpinia a L’Aquila, dall’Albania ad Haiti. Dovunque ci sia stato un terremoto, un’alluvione o uno tsunami lui c’è stato. Organizzando i soccorsi, allestendo campi, gestendo l’emergenza. Si racconta che suo figlio, quand’era piccolo, se vedeva in tv la notizia di un terremoto, correva a spegnere sperando che il papà non se ne accorgesse e non fosse costretto a partire. Ora, in teoria non parte più: perché da qualche settimana è andato in pensione il disaster manager Ruggero Marazzi.

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Il terremoto in Irpinia
In principio fu l’Irpinia…

Tutto iniziò in maniera spontanea… Ci fu il terremoto in Irpinia e sentii che dovevo andare. Lavoravi all’Amministrazione Provinciale: chiesi le ferie e partii“.

Che faceva in Provincia?

Facevo l’impiegato: si trattava di un progetto speciale con la Legge Giovanile 285. Facevo il censimento dei pozzi. Quelle ferie però sono durate due o tre giorni. Infatti, l’Amministrazione provinciale ufficializzò la mia missione in Irpinia ed io rimasi lì sei mesi”.

Eravamo impreparati, era il 1980…

Assolutamente si, basti pensare che ci vollero 15 giorni per individuare l’epicentro del terremoto“.

Fu il Presidente Sandro Pertini ad imporre la nascita della Protezione Civile: arrivò sul posto il giorno dopo il terremoto mentre la gente aspettava ancora i vigili del fuoco.

Fino ad allora i soccorsi erano gestiti dal Ministero dell’Interno, che però non fungeva da organo di coordinamento di tutti gli altri enti e istituzioni. Per cui ognuno andava a ruota libera e per se stesso, non era coordinato da nessuno e c’era una terribile confusione“.

Si scavava a mani nude e molte volte tutti concentrati sullo stesso posto…

Si, in mancanza di un ente di coordinamento ognuno cercava di fare quello che era nelle sue possibilità…

Ruggero Marazzi © Stefano Strani
Una delle ultime tragedie è stata L’Aquila, quanto è cambiato il sistema nel frattempo?

Adesso l’Italia è arrivata ad essere il Paese migliore in materia di gestione dei soccorsi. Siamo noi che diamo le linee guida ad altri Paesi occidentalizzati per formare le loro Protezioni Civili sulla base di quella italiana che davvero rappresenta un fiore all’occhiello. Quella a L’Aquila è stata quindi una gestione più che soddisfacente da un punto di vista del soccorso“.

Cosa le lascia dentro l’Irpinia?

La volontà di continuare su quel percorso…

Cioé il suo mestiere non era quello di contare i pozzi…

Esatto, ma di fare protezione civile…

Che però non esisteva…

No, fortuna volle che proprio in coincidenza con il mio rientro io venissi trasferito dall’Amministrazione provinciale al Comune di Frosinone. Lì il sindaco Miranda Paniccia Certo decise di fondare la Protezione Civile. Era sempre il 1980 e quello di Frosinone fu il primo comune d’Italia ad istituire un suo servizio di Protezione Civile, tant’è che il Ministero dell’Interno lo utilizzò come progetto pilota su scala nazionale“.

In pratica siete partiti da zero…

Più che altro ce la siamo dovuti inventare, perché non c’era una Protezione Civile nazionale. Ecco perché diventammo Comune pilota, proprio perché passo per passo dovemmo inventare la Protezione Civile”.

Ruggero Marazzi durante una delle sue missioni di Protezione Civile
Il primo impiego della Protezione Civile di Frosinone?

Fu a livello territoriale. Nel 1984 ci fu il terremoto a San Donato Valcomino e il primo impiego esterno e di attività emergenziale fu quello“.

Bisogna essere cinici per poter affrontare l’emerganza sul campo?

Bisogna essere preparati e mettere da parte, almeno in quel momento, le tante emozioni, lo stress e cercare di pensare solamente a ciò che va fatto“.

Qual è la prima cosa alla quale si deve pensare quando si arriva sul luogo del disastro?

Quallo che si puo’ fare con le forze che si hanno a disposizione. In termini militari si chiama ‘triage’“.

Come funziona?

Con riferimento a dotazioni, capacità e personale che si hanno bisogna capire dove operare e dove non è possibile“.

La cosa a cui non si deve pensare assolutamente in quei momenti?

All’indecisione. Sembra paradossale ma è così; la tentazione di non prendere decisioni a volte è molto forte, perché prenderle comporta anche delle scelte che possono essere dolorose. Immaginiamo di dover decidere di iniziare a scavare in un’abitazione tralasciandone un’altra, in quel momento noi sappiamo che si sta facendo una scelta che a volte può essere di vita o di morte“.

Come cambia la percezione della morte dopo esserci stati affianco o dopo aver lavorato affianco al luogo dove la morte è passata?

La morte non è tutta uguale“.

No?

La morte è diversa. Quella che mi ha fatto più effetto è stata quella di Sarno. Nelle grandi emergenze da terremoto generalmente si entra in contatto con cadaveri che neanche sono riconoscibili. E questo rende la morte quasi impersonale. Nel caso di Sarno invece i cadaveri erano perfettamente intatti e questo mi ha dato perfettamente la percezione della morte, cioé la quotidianità che viene ‘fotografata’ nel momento del decesso, quando la mamma magari dà il latte al proprio bambino… Ecco, in quel modo all’idea della morte proprio non si può sfuggire“.

Come si diventa disaster manager?
Ruggero Marazzi

Attraverso lo studio e la formazione. Ci sono corsi che vengono tenuti dalle università italiane. Sono dei master, c’è anche la laurea triennale in Disaster Management. Si tratta perciò di un corso di studi, il corso minimo consta di tre anni, altrimenti c’è la laurea magistrale di cinque anni“.

La cosa più difficile da imparare, quello che non si apprende sui libri ma solo a furia di affrontare le tragedie?

Più che di cose da imparare parlerei di ciò di cui ci si deve dotare, cioé l’umanità. Non bisogna mai perderla in quelle occasioni, perché non c’è solamente la morte. Anzi; la morte è un momento ‘marginale’ dell’emergenza. Quello che davvero pesa è il dolore, la sofferenza delle persone che hanno perso i cari e i beni. Io mi ricordo di persone che, con tutti i beni sotto la propria abitazione crollata, chiedevano ai Vigili del Fuoco di trovare e recuperargli una fotografia. Questo perché altrimenti avrebbero perso il contatto il passato. Sono scene veramente toccanti e (in questi frangenti) l’umanità è veramente necessaria, per non perdere il contatto con la realtà“.

Ci si confronta con la morte ma ci si confronta anche con la vita. Quante vite avete salvato?

Tante. Tuttavia lascia sempre di più l’amaro in bocca il fatto di non aver potuto salvare qualcuno di quanto non dia gioia essere riusciti a salvare qualcun altro. Certo, c’è la soddisfazione, c’è anche il piacere di potersi dire di aver lavorato bene. Ma di fronte a situazioni in cui non sei riuscito a intervenire, l’impatto e molto molto più pesante“.

Ruggero Marazzi durante la missione ad Haiti
Qual è stata l’amarezza più grossa in questi anni?

Ad Haiti e per un motivo. Qual è stata la differenza fra il terremoto di Hiati ed altre catastrofi nazionali ed internazionali? Da un punto di vista della catastrofe in sé nessuna, morti erano quelli di Haiti, morti erano quelli in Irpinia con pari distruzione. Il problema è che quasi ovunque tu accorra per una catastrofe sai che è ‘normale ‘. Che potranno passare anche anni, ma alla fine ci saranno la ricostruzione e il riavvio di una vita sociale normale. Ad Haiti invece avevi la sensazione, se non la certezza, che nulla sarebbe cambiato“.

Come fu la chiamata per andare ad Haiti?

Sempre tramite la Sala Operativa Nazionale del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile. Arrivò la solita telefonata che disponeva di mettersi in preallarme. Il preallarme dura due ore e poi arriva la chiamata…

La solita telefonata. Ma è vero che suo figlio da piccolo spegneva il televisore se c’era la notizia di un terremoto?

Assolutamente si. Oppure si metteva a far baccano per non farmi sentire la notizia, se non poteva spegnere il televisore“.

E sua moglie? Quanto tempo ha impiegato ad abituarsi a questo marito che faceva un mestiere così insolito?

Io penso che ancora ci si debba abituare del tutto. Ma senza il suo aiuto, il suo e quello di mio figlio io non avrei potuto fare questo mestiere. Assolutamente. Anche perché i tempi di permanenza fuori di casa, specie quando si era all’estero, erano estremamente lunghi“.

La grande nevicata di Frosinone
Haiti lascia la consapevolezza. Lascia l’amarezza per il fatto che forse non verrà ricostruito più nulla. Altre emergenze che invece le hanno lasciato un’emozione più positiva: nel senso di ‘meno male che siamo venuti qui’?

Onestamente devo dire un po’ tutte. Ci sono state situazioni in cui noi soccorritori ci siamo sentiti un po’ soli, nel senso che la popolazione era abbastanza passiva, per cui non ci dava una mano né ci supportava nelle nostre azioni. In altre circostanze invece c’erano partecipazione popolare, voglia di riscatto e di ripresa immediata, per cui ci sentivamo anche più motivati…

Gente che aspettava faceste tutto voi: era per lo shock… oppure c’era altro?

Un po’ lo shock, un po’ perché in alcune situazioni ed aree geografiche l’assistenzialismo è molto forte. Per cui anche in quei casi ci si aspetta che lo Stato faccia la sua parte e si resta seduti ad aspettare: va detto anche questo…

La dico io: quando la nevicata paralizzò Frosinone ci fu un mucchio di gente che aspettò che voi gli spalaste la neve mentre loro guardavano…

Non solo quello, poi spariva il sale: incredibile…

Il massimo fu la signora che chiamò chiedendo di portarle due litri di latte e due pacchetti di Marlboro…

Già, si…

L’intervento in Albania
Nell’emergenza si scopre la solidarietà degli italiani: ce l’abbiamo ancora questa solidarietà o la stiamo perdendo?

Anche se alcuni avvenimenti hanno inficiato molto questa solidarietà, per brutte vicende avvenute, soldi spariti o di cui non si sono conosciuti più destinazione ed utilizzo, questa solidarietà tiene e tiene forte. Questa solidarietà è venuta fuori addirittura anche adesso in Albania“.

E’ vero che c’erano delle signore, soprattutto anziane, che vi portavano il latte e da mangiare perché vi vedevano stremati mentre continuavate a scavare?

Si, addirittura ci portavano maialini vivi: È successo anche questo, in Calabria, che cioé ci siamo ritrovati al campo con un signore che per ringraziarci ci aveva portato un maialino vivo…

Lo avete cucinato o è diventata la vostra mascotte?

È diventata la nostra mascotte…

Quante tragedie si potevano evitare?

Tutte. Tutte dal punto di vista della tragedia in sé, non del fatto, e mi spiego meglio: un terremoto non lo si puo’ evitare, i suoi effetti, quelli si. E purtroppo potevano essere evitati tutti“.

Quante sono colpa dell’uomo?

Tutte“.

Nessuna esclusa?

Si, tutte. La natura non ha ‘colpe’, si esprime come ha sempre fatto nei milioni di anni che si sono succeduti, Insomma, non si muore di terremoto, si muore di costruzioni che non vanno“.

La vera emergenza è quella culturale: ci manca la cultura della prevenzione?
Il terremoto a L’Aquila © Roberto Monaldo / LaPresse

Esatto. E lo è ancora. Ci manca. Basti pensare che l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo che non ha una materia scolastica dedicata alla prevenzione ed alla sicurezza. Senza queste noi già riusciamo a capire quanto sia difficile fare prevenzione e anche come sia difficile adottare le norme di autocomportamento. Perché proprio quelle, come comportarsi cioé in caso di terremoto, alluvione… sono norme che per essere adottate in caso di necessità devono diventare automatismi. Vanno quindi provate e riprovate in continuazione. Non possono essere il frutto dello sforzo mnemonico del momento, specie in circostanze stressanti come quelle di un terremoto. Durante un terremoto io non posso mettermi a ricordare quello che mi è stato insegnato dieci anni prima da un professore“.

Se la vera emergenza è quella culturale, se gli effetti delle tragedie potevano spesso essere evitati, cosa ha pensato allora mentre guardava le macerie di Amatrice e vedeva quei tetti in cemento che non potevano reggere…?

Quanto sia purtroppo lontana da noi in Italia la cultura della prevenzione. È lontanissima. Con scosse di questo tipo in Giappone continuano a bere il tè pomeridiano, neanche si scompongono. Questo perché? Perché sono certi delle costruzioni che hanno sulle loro teste. In Italia no. Perché noi abbiamo tanta paura del terremoto? Perché non sappiamo se siamo al sicuro o meno. E spesso non lo siamo; non lo siamo con le scuole, con gli ospedali, con le fabbriche e con le sedi di lavoro. Purtroppo è così, la cultura della prevenzione qui non c’è“.

Quante volte le è capitato di dover dire a un sindaco o ad un preside che le strutture sulle quali avevano responsabilità non adavano bene e loro hanno comunque dovuto alzare le spalle perché non avevano mezzi per metterci riparo?

I sindaci lo sanno, sanno qual è il loro patrimonio e come è composto. Sanno benissimo anche che purtroppo, per poter adeguare sismicamente questi fabbricati occorrerebbe uno sforzo economico indicibile. Sanno anche che le risorse messe a disposizione dallo Stato e dalla Regione sono poche, per cui c’è questo cane che si morde la coda di un intervento che non viene mai fatto“.

La tendopoli della Protezione Civile
L’emergenza è anche dover organizzare in fretta una tendopoli perché sta arrivando all’improvviso una serie di migranti che nessuno sa dove sistemare…

Si, lo abbiamo fatto a Frosinone un piao di volte ed anche questa è una mansione che rientra nella nostra attività: l’assistenza alla popolazione non prevede che ci siano distinzioni di colore o di razza, è assistenza alla popolazione e basta”.

Anche lì ci si confronta con dolori e tragedie di gente in fuga…

Tuffarsi nel loro dramma per soccorrerli ce li fa vedere in una maniera diversa da come ci vengono raccontati. C’è una narrazione secondo la quale sono persone che vengono in Italia pur non avendo bisogno di nulla. Invece hanno un trascorso storico personale fatto di momenti pesantissimi. Già a volerci ragionare sopra, basterebbe pensare che uno rischia la sua vita in mare per venire in Italia… Se non ne avesse bisogno se ne starebbe a casa sua…

Ma è vero che il telefono squillava puntualmente nel primo giorno di ferie?

Sempre…”

Come si sta da pensionato?

Non lo so, mi ci faccia entrare pienamente nel mood della pensione e poi spero che saprò risponderle…