Monaco tra i monaci, l’addio di dom Pietro alla terra dopo il “Suscipe”

Montecassino e il funerale del 191mo abbate spirato a Roma dopo un malore e che è voluto tornare dove tutto è cominciato

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Tutte le possibili declinazioni della giornata con cui dom Pietro Vittorelli si è accomiatato dall’esistenza terrena sono scomparse nel saluto a Pietro. È stato come se il rito funebre del pomeriggio in abbazia a Montecassino avesse sublimato ogni lettura ed avesse fatto massa critica su una sola, grande frequenza emotiva.

Le navate si sono riempite, il silenzio si è fatto più silenzioso all’arrivo della bara e il rito ha sciolto ogni presunzione di angolatura, comprensione, interpretazione. Tutto si è condensato nel tempo intercorso tra il timido applauso iniziale e il viaggio della bara verso il cimitero monastico della badia.

Percorso in cui saggia si è rivelata la scelta dell’abate in carica Luca Fallica di un sereno ma fermo ban ad ogni protocollo mediatico: niente telecamere, niente foto, niente interviste. È un funerale: non un evento gossip.

L’applauso all’ingresso della bara

L’ingresso della bara nella chiesa è stato segnato da un battito di mani composto, senza il fragore di osanna ipocriti e con la piena consapevolezza che quello era sì un funerale ma pure un rito particolare. Un rito attraverso il quale la comunità che accolse il “Suscipe” di padre Vittorelli ha ricevuto ora il “dono” della famiglia di Pietro Vittorelli a ché il commiato all’abate emerito Vittorelli fosse commiato di degno cerimoniale.

Sono sottigliezze: ma dietro c’è stato il dolore gigante di persone che del defunto erano carne e sangue. E che hanno scelto di onorare la volontà di chi non c’è più invece di assecondare il bisogno di intimità di chi resta e lo fa piangendo. La morte tende a far asserragliare gli affetti veri. E chi in circostanze simili non fa quadrato fa una scelta di rara nobiltà.

Con quell’atto il 191mo abate di Montecassino è stato riconsegnato alla linea di un’esistenza generata da una vocazione ed a discapito di un suo segmento imperfetto che aveva pasturato sciacalli.

La Città di Dio e di dom Bernardo

La Città di Dio è un’opera in 22 volumi scritta da Sant’Agostino, quel savio i cui pensieri foraggiarono (sia pur con un percorso differente) anche parti della Regola Benedettina un cui tomo andò arso a Teano. Partiva da un principio.

E’ quello della validità del dubbio per concepire in un secondo momento la fede. Una crasi perfetta tra ciò che l’uomo è e ciò che l’uomo dovrebbe aspirare ad essere. E nella tensione fortissima di quell’aspirazione sta tutta la vita che Pietro ha messo a servizio della sua personale ricerca. (Leggi qui: La corsa di Pietro Vittorelli contro il giudizio, persa malgrado la Giustizia)

Un neo dottore in Medicina che cede al richiamo più alto ed arriva al suo personale “Suscipe”. Abbandona i libri di medicina, la sua San Vittore, la famiglia, ogni distrazione e sale a Montecassino per incontrare il trascendente.

Sul valore di quella parola, Suscipe, inclusa al paragrafo 21 della Regola di San benedetto che viene pronunciata dal novizio quando fa la sua professione di fede e prende i voti perpetui, si è concentrata l’omelia di dom Luca Fallica, abate di Montecassino e celebrante il rito. Con al suo fianco l’uomo che più di ogni altro vide Pietro diventare dom Pietro e la sua preparazione fortificarsi e divenire salda: dom Bernardo D’Onorio.

Dom Bernardo, con i paramenti abaziali, è alla destra di dom Fallica durante la celebrazione. Fu 190mo abate, diretto predecessore di dom Vittorelli che volle come suo personale segretario. Venne elevato ad arcivescovo e confinato a Gaeta: i maligni, che certe storie le condiscono sempre, dissero che fu una manovra dei ratzingeriani, un promoveatur ut amoveatur con cui lasciare libera la cattedra di San Benedetto proprio a dom Pietro che a Papa Benedetto era vicinissimo.

Le parole di dom Fallica

dom Luca fallica

Dom Luca ha enunciato il valore del Suscipe e della “maniglia” etimologica per cui quella parola latina contiene il prefisso dell’altezza, uno speranzoso “su”. Della capacità di Dio cioè di elevare sempre e comunque l’uomo dalla sua dimensione terrena e perfino ctonia.

Della volontà in purezza di Dio di accogliere la bellezza perfetta e tonda per cui ognuno di noi è molto più della somma delle sue miserie umane. Incluse quelle di chi cede alle lusinghe del pregiudizio e non cede nemmeno di fronte alle certezze del Diritto.

Dovremmo imitarlo, Dio, atei inclusi, ma nell’ispirazione alla condotta, non nella vanagloria del giudizio.“Suscipe me secundum eloquium tuum, et vivam, et non confundas me ab exspectatione mea”.

Questo recitano, questo credono, questo vivono i monaci quando chiedono di essere accolti. E questo chiedono a Dio: “Sostienimi secondo la tua promessa e vivrò, non deludere la mia speranza”.

La nuova prospettiva, di coscienza

Dom Pietro Vittorelli con la barba ed il bastone (Foto © IchnusaPapers)

Ecco, il commiato terreno di dom Pietro Vittorelli è stato sostenuto non solo dal suo Interlocutore, ma anche dalle comunità che sono giunte in abbazia a salutarlo. Persone del Cassinate, autorità politiche e militari, rappresentanti delle istituzioni, cittadini della sua San Vittore, gente comune e gente di censo. In chiesa senza un cerimoniale, cioè senza una suddivisione dei posti in base all’importanza terrena del ruolo. Anche questo è stato il segnale che quella cerimonia fosse l’addio cristiano a Pietro e non la celebrazione di ciò che fu dom Vittorelli.  

A rappresentare la Provincia non c’era il presidente ma il consigliere comunale di Cassino Gino Ranaldi; il sindaco era rappresentato dal suo vice Francesco Carlino; tra i politici, chi ci ha messo la faccia da subito rivendicandone l’amicizia c’era l’ex presidente del Consiglio regionale Mario Abbruzzese. Nelle prime file, il presidente della Banca Popolare del Cassinate Vincenzo Formisano; più dietro, con signora Tiziana al fianco, l’avvocato Sandro Salera che ne ottenne l’assoluzione piena quando lo accusarono di avere approfittato dei denari dell’otto per mille destinati alle opere caritatevoli fino ad un processo assolutorio con formula piena. E poi tanta gente comune. Tanta.

Doloroso ma giusto

dom Pietro Vittorelli (Foto: Michele Di Lonardo)

Che sia stato bisogno di espiazione per i silenzi nelle more delle umane faccende o afflato di vicinanza per aver sempre saputo che tutto era mondo, il loro, alla fine non ha avuto alcuna importanza.

Perché alla fine tutto si è stemperato in un momento doloroso ma giusto. Giusto come il bisogno che tutti abbiamo di cercare una nuova prospettiva, di abdicare dal giudizio e di prendere per mano la nostra coscienza per ridarle la giusta ancella: la Verità. E la verità è che, come con la strenua difesa della Città di Dio del vescovo di Ippona che non ricusò il platonismo ma lo fece camminare al suolo. Il funerale di oggi ci ricorda che noi a quella ricerca dovremmo guardare tutti.

Dovremmo farlo emendando gli affanni di porla e lodando la forza spaventosa ma bellissima nell’averla sempre come scopo. Lo scopo di percepire un lutto, rileggere tutto ciò che lo ha preceduto, fare ammenda e tesoro.

Ed accompagnare ogni uomo della Terra con la contrizione che ora ha seguito e fatto ali sincere alla bara di dom Pietro che raggiungeva il posto dove voleva stare. Monaco tra i monaci.