“Er teremoto d’Avezzano” che cancellò la Marsica e fece piangere Sora

Alle 7.52 del 13 gennaio 1915 la terra tremò e fece oltre 30mila vittime, 600 delle quali sono state ricordate oggi da Luca Di Stefano

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

“Bisognerebbe che ‘mprecassi, urlassi”: lo spiegava in crescendo urlato Gigi Proietti dal palcoscenico. Lo faceva parlando col medico del manicomio da cui alla fine era stato dimesso dopo aver perso senno ed affetti nel terremoto di Avezzano delle 7.52 di mercoledì 13 gennaio 1915. Il monologo che ricorda quella tragedia è del 1975 e venne trasmesso durante Fatti e Fattacci. E ad un certo punto l’uomo che Proietti impersonava, scampato allo scempio ma non al dolore che quella rovina scavò nel suo cuore, si riprese.

Era un matto appena dimesso e non deponeva bene che in sede di verifica di senno ritrovato facesse baluginare cupo anche solo un piccolo barlume di follia residua.

Poi raccontò del suo orrore. Eppure quello che accadde 109 anni fa nella Marsica ed anche, terribilmente, a Sora, era stato folle nella sua ineluttabilità naturale. Tanto folle ed al contempo così violentemente innaturale che la città ciociara ancora oggi porta le stimmate di uno dei centri più martoriati da quella scossa di magnitudo 7 che rase al suolo la tangente tra Lazio ernico, Abruzzo e Valle dei Liri.

Una terra spazzata via in 30 secondi

La cerimonia di scopertura della lapide

E che spazzò via i sogni di una città “splendida fervida industre”. Lo ricorda una targa presso la quale in mattinata il Sindaco Luca Di Stefano ha deposto un cuscino floreale. La lapide è posta sulla facciata del Palazzo Municipale, a Sora, in Corso Volsci, 111 e l’omaggio farà da preludio ad un momento di raccoglimento presso il Monumento in Piazza Santa Restituta che rammenta quell’ecatombe. Le vittime complessive di quel sisma che in obsoleta valutazione Mercalli toccò un terrificante XI furono oltre 30mila e 500.

E Sora pagò un tributo altissimo con 600 vittime censite e con la sua urbanistica medievale rasa al suolo fino alle falde di San Casto. Risorgere dopo quell’ecatombe fu difficile come mai prima, non solo per l’intensità della devastazione in sé, ma anche per una serie di circostanze storiche che fecero tragico orpello ad un fatto che era stato già tragico di suo.

I morti, la polvere e la distruzione assoluta

Tanto forte ed inatteso fu, quel tremore, che molte case semplicemente si chiusero su se stesse schiacciando sotto quintali malevoli di pietra gessosa e legno persone, animali e speranze. Si determinò un effetto quasi surreale, per il quale i molteplici “schiaffi” dati al suolo delle pareti portanti degli immobili fecero innalzare e schizzare in aria violentemente migliaia di nuvole di polvere. Il risultato fu un inferno in terra, una bassa e greve nuvola bianca che faceva affiorare ogni tanti fantasmi barcollanti. Quell’inferno fu affidato ala descrizione nelle parole di Ignazio Silone, cittadino della pur colpita Pescina.

“I soffitti s’aprivano. In mezzo alla nebbia si vedevano ragazzi che, senza dire una parola, si dirigevano verso le finestre. Tutto è durato venti secondi, al massimo trenta. Quando la nebbia di gesso si è dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo…”. Ecco, molti di quei ragazzi erano ragazzi sorani e ciociari. E molti pianti risuonarono anche negli anfratti sfasciati di Veroli, Castelliri, Arpino ed Isola. E l’orrore non ci mise molto a figliare: i soccorsi tardivamente inviati dal governo Salandra non funzionarono bene abbastanza da porre argine allo stillicidio della morte dei feriti gravi.

Di soccorsi tardivi ed ulteriori tragedie

Gigi Proietti in Fatti e Fattacci nel 1975

Poi, quattro mesi dopo quello sfascio e dopo una visita protocollare di “Sciaboletta”, Vittorio Emanuele III Re d’Italia per grazia di Dio e futuro cameriere del Fascismo, l’Italia entrò in guerra. Lo fece contro uno dei primi paesi che aveva inviato attestati di Solidarietà: l’Austria. Fu il caos nel caos. Il matto guarito di Proietti quel caos lo raccontò orribilmente bene: “Trasognato arrivai a Milano e scesi dal vagone mentre che ‘no strillone urlava a squarciagola: ‘Er teremoto d’Avezzano, la Marsica distrutta!’ In quel momento me parve de morì.

Lui, il personaggio, non morì, ma assieme ai 30mila e passa periti sotto l’usta del sisma ne morirono indirettamente altri 2000 che invece avrebbero potuto aiutare e ricostruire. Dove? Sul Carso, a 700 km di distanza, cioè dove un governo smargiasso si affrettò a gonfiare il petto fattosi interventista. Ed a spedire di leva anche i coscritti marsicani e sorani dopo l’ingresso del Paese nella Grande Guerra. Sottraendo oltretutto soccorritori.

Dopo il sisma la guerra e i “coscrittissimi”

Ignazio Silone, che con decine di altre personalità della cultura affrontò il tema di quella tragedia, scrisse che “nel terremoto morivano ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera…”.

Tanto effimera che gli orfani sorani diventarono nomadi reietti e che molti giovani sorani passarono dalle lacrime al moschetto Carcano del ‘91. E da disperati divennero fantaccini da trincea fangosa, cioè disperati due volte. Vennero chiamati “i coscrittissimi”.

Ci volle tutta la forza di un popolo che era fatto della stessa scorza dei vicini Ernici per ricostruire Sora e le altre città piallate via dalla più matrigna delle nature. Una città che dopo “l’angoscia, l’orrore e la morte è risorta protesa al futuro”. Una città che ancora oggi, 109 anni dopo quell’orrore, “piange i suoi figli stroncati”.

E che ha fatto sue le parole di quel Proietti là, quello che era diventato matto perché la sua Maria era morta sotto le macerie mentre lui era a Milano per portare il pane in tavola. “Ritorno a questa vita co’ na maschera n’faccia, de dolore”. Di dolore e di forza immensa nell’affrontarlo e vincerlo. La forza dei sorani che oggi ricordano chi, morendo, quella forza la innescò.