Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

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AOTEAROA

Si, proprio lei, una società di telecomunicazioni. Che magari ad almeno la metà di noi ed almeno una volta ha fatto invocare i sette cieli empirei per disservizi. Roba una tantum da cui nessun gestore è immune. Perché ognuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con i problemi di linea del wi fi casalingo, o dei dati a pacchetto del cellulare. E ci è diventato idrofobo dietro, a quei vuoti.

Abbiamo tutti chiamato il numero di Aotearoa ed abbiamo parlato con un solerte operatore che guardando il cielo di Bucarest ha provato a rabbonirci. E che ci ha chiesto pazienza già quando stavamo sbranando il pomello della sedia della nonna e con esso l’avambraccio della medesima. Poi però il buio è finito e Aotearoa è tornata ad erogare il suo servizio.

Ed a regalarci sgroppate social e pdf di bollette da archiviare. O pezzi da scrivere, pezzi come questo, dove il cortese lettore si starà chiedendo se per caso l’autore abbia brindato a nafta agricola. O se nel mare magnum dei gestori telefonici non gli sia sfuggita questa nuova società, Aotearoa. Eppure la medesima è una multinazionale immensa.

Vodafone Nuova Zelanda

Ha sede a Londra, è nata nel 1984 ed opera in 26 paesi del pianeta. E, a proposito, nel 2019 ha dichiarato un fatturato di 43,67 miliardi di euro. Perché Aotearoa è Vodafone. O meglio, il nome che Vodafone si è voluta dare in Nuova Zelanda per onorare l’anima Maori di un paese che per parte british dei maori si svende solo la danza incazzereccia del rugby.

O il loro immenso coraggio quando morirono a mazzi ai piedi di Montecassino. Ma poi li ha spersi nel dimenticatoio dei nativi a cui far sentire il tallone dell’occidente sul collo. E Vodafone ha spiazzato tutti, incappando anche nelle ire di numerosi utenti di ceppo albionico. Ha cambiato il suo nome in ogni schermata di cellulare ed ogni anfratto del web.

Lo dice il Guardian. «Vodafone ha circa 2.000 dipendenti neozelandesi. E ha confermato di aver cambiato il suo banner nella parte superiore dei telefoni degli utenti. Da “Vodafone NZ” a “VF Aotearoa”». In Nuova Zelanda le battaglie per conservare tradizioni e linguaggio maori sono tante, ma quasi tutte con esiti di facciata. I primi solleciti erano arrivati da esponenti di “Ngati Whatua Orakei”. No, non è Henry Potter ‘mbriaco. E’ un hapu, cioè una sotto-tribù molto attiva nella città di Auckland. Esistono società che hanno iniziato ad usare il reo-tikanga, la lingua maori, nelle loro operazioni commerciali quotidiane.

Ma sono eroiche eccezioni che soccombono allo strapotere della cultura british. Cultura che invoca non solo il mainstream tirannico della lingua di Albione, ma anche una certa spocchia linguistica. Una sicumera che affonda le sue radici nella affettata boria vittoriana e imperiale che fu. E Vodafone che è inglese per battage e sede ha voluto lanciare un segnale. E lo ha sostanziato nel segnale delle sue stazioni neozelandesi. Che rimandano il nome di una terra fiera di ciò che fu ed orgogliosa di ciò che è diventata: Aotearoa. Cioè La Lunga Nuvola Bianca.

Haka, linguaccia e muti.

ABDALLAH AL KAABI

Fa il regista ed ha affrontato temi scottanti come amore omosessuale e identità di genere. Qui da noi, dove almeno in patina di vernice certi tabù sono superatissimi, magari sghignazziamo. Poco meno da ridere c’è negli Emirati Arabi Uniti, in un posto cioè dove se tocchi certi argomenti diventi un bersaglio. Quindi essere Abdallah Al Kaabi negli Emirati non è certo come essere John Malkovich nell’omonimo ed alienante film.

Però Al Kaabi è uno che non demorde e, malgrado l’ostracismo di una società che dell’Occidente ama i simboli senza adottarne l’etica, ha proseguito nelle sue battaglie. Lui e tanti altri come lui. Talmente tanti che alla fine il ‘governo’ degli Emirati ha deciso per una sterzata legislativa epocale. Sterzata che mette un po’ più in cantuccio quell’Islam a trazione bigotta che sta frenando anche gli affari dei ricconi di quelle parti.

Abdullah Al Kaabi

Ma in polpa, di cosa parliamo? Della possibilità di convivenza per le coppie non sposate, dell’allentamento sulle restrizioni in materia di alcol e del riconoscimento dei delitti d’onore come reati. E’ roba grossa, grossa davvero. Roba che solo cinque anni fa negli Emirati avrebbe fatto saltare il coperchio della società al solo nominarla. Figuriamoci poi a metterla in punto di diritto.

E’ stata l’agenzia di stampa WAM a dare le notizia, poi sviluppata nei dettagli dal quotidiano The National, che è un po’ un Corsera cammellato. Ma cosa c’è dietro questa fulguratio, oltre che un improvviso reflusso etico-esofageo?

Molto più prosaicamente il recente accordo mediato dagli Usa trumpiani per mettere un minimo di cordialità fra Emirati ed Israele, che due giorni fa ah anche riallacciato legami con il Marocco. Israele che non tarderà, superate diffidenze ataviche e millenarie, a spedire turisti. E i turisti, nel loro portar soldi, bisbocciano e cercano Paesi che non facciano della bisboccia un’eresia insormontabile.

Anche a fare la tara alla bieca necessità storica però, il ruolo di preparatore di terreno di Al Kaabi e di quelli come lui resta tutto. Perché dissodare il terreno del progresso a New York non solo è facile, ma anche figo. Farlo a Dubai è difficilissimo. E a volte fatale.

Ciak si cresce.

FLOP

GRUPPO OPERAZIONI SPECIALI USA

La notizia è grossa e porta dritta dritta negli ambiti dei grandi “gates” Usa, degli scandali cioè. Mini divagazione di esordio: gate in inglese significa cancello, non scandalo. Il termine ha preso il suo significato iconico dopo il Watergate di Nixon, che nella mistica “meregana” è il padre di tutti gli scandali. Un po’ come da noi ogni scandalo ha il suffisso ‘poli’ da Tangentopoli in giù.

La buttiamo così come l’ha confezionata Al Jazeera, prendendola paro paro da un’indagine della rivista on line Motherboard. Le forze Usa che giocano a scacchi sui livelli alti della lotta al terrorismo stanno monitorando il mondo musulmano. Dice embè? Per un Paese in tacca di mira di ogni tagliagole con il Corano sotto il braccio è roba legittima e sacrosanta.

Jack Ryan, il protagonista della celebre serie Amazon: lo spionaggio si fa con l’analisi dei dati

Est modus in rebus però, perché gli Usa lo starebbero facendo acquisendo posizioni sui movimenti di tutti i musulmani del mondo. Come? Crashando o ‘lisciando’ una popolarissima app legata al mondo dell’Islam, Muslim Pro (che però nega di aver ceduto alle lusinghe). Ora, a parte il blando stupore provinciale, lo ammettiamo, per il fatto che sul web esista una versione coranica di Radio Maria, la faccenda è seria. Muslim Pro ha centinaia di milioni fra download e login quotidiani.

Ad essa si unisce un’altra app molto in uso fra i musulmani, stavolta una sorta di versione arabeggiante di Meetic. Un sito di incontri dove tutte le Fathime del pianeta chattano con tutti gli Abdul. Roba grossa, ma soprattutto roba maledettamente privata. Dal canto suo il comandante della Marina e del Comando Operazioni speciali Tim Hawkins si è schernito ma non troppo.

«Il nostro accesso al software viene utilizzato per supportare i requisiti delle missioni delle forze operative speciali all’estero. Aderiamo rigorosamente alle procedure e alle politiche stabilite per la protezione della privacy e delle libertà civili. Nonché dei diritti costituzionali e legali dei cittadini americani».

Ecco, quell’”americani” finale un po’ inquieta. Il dato quindi resta e con una coda grossa così. Una delle società coinvolte nella vendita dei dati sulla posizione, X-Mode, ha affermato di aver tracciato 25 milioni di dispositivi negli Stati Uniti ogni mese e 40 milioni altrove, inclusi l’Unione Europea, l’America Latina e la regione Asia-Pacifico.

Allora Motherboard ha fatto una prova. Ha installato l’app di incontri Muslim Mingle su un telefono Android. Poi ha guardato mentre inviava ripetutamente le coordinate di geolocalizzazione esatte insieme al nome della rete WiFi a X-Mode. L’indagine ha rilevato che vengono spremute anche altre app che trasmettono dati sulla posizione. Sono un’app contapassi chiamata Accupedo, quella meteo Global Storms e CPlus per Craigslist. Il senatore statunitense Ron Wyden ha rivelato a Motherboard che X-Mode aveva ammesso di aver venduto i dati raccolti ad altri «clienti militari statunitensi».

Zero zero sette-te.

IL GOVERNO GIAPPONESE

Lo ha annunciato il Guardian-Observer ed è roba col botto. Il governo di Tokyo ha stabilito di sversare nel Pacifico più di un milione di tonnellate di acqua contaminata proveniente dalla centrale nucleare di Fukushima. Basterebbe già così a determinare il Flop dei Flop di tutti i Flop da quando il concetto di Flop esiste ed ha un senso.

La notizia l’aveva lanciata l’agenzia nipponica Kyodo. Agenzia che ci è andata giù durissima, anche a fare la tara alla natura stringata della sua mission, in quanto a parole. Perché il fatto è grave, anzi, gravissimo. In buona sostanza con questo protocollo di sversamento, che dovrebbe passare per sei step fino al 2022, è a rischio l’intera fetta di Oceano Pacifico che lambisce l’Asia.

Il Primo Ministro Yoshihide Suga

Non è un caso che assieme alle associazioni ambientaliste di tutti i Paesi che affacciano sul quel mastodontico tratto di mare siano insorti i pescatori. E sul perché di una scelta così scellerata il governo del neo premier Suga ha fatto quello che tutti i governi giapponesi fanno sempre quando esagerano. Ha motivato il tutto con l’olimpica calma del toro che in cristalleria non si accorge di aver tritato tutto il tritabile. In buona sostanza, dato che i mille serbatoi della Tepco, la società che possiede il sito, sono quasi pieni, bisogna sversare in mare la più parte delle eccedenze previste.

Chiaro e con quel po’ di scazzo sussiegoso, come se si stesse parlando di letame di cavallo con cui fare gagliardi i cavolfiori nell’orto. Le altre opzioni, quelle dell’evaporazione con stoccaggio delle scorie a secco e della costruzione speed di altri serbatoi, costano troppo. E poi c’è il mare a due passi dai. Nel marzo 2011 l’impianto venne distrutto da uno tsunami che generò un incidente quasi planetario. Da allora l’industria della pesca in Giappone, che rappresenta fetta grossissima del pil nazionale, era crashata come un soprabito senza stampella.

I primi segnali di ripresa si erano avuti a fine 2018. Poi è arrivato Covid che ha impedito i grandi mercati ittici e il settore era tornato in pre agonia. Ora questa scelta, che non è solo schiaffo all’economia di un Paese che sa solo pescare, ma ceffone all’equilibrio del pianeta.

Pianeta che puo’ solo guardare un suo inquilino scemo che lo riduce in coriandoli. La Corea del Sud, che aveva vietato l’importazione di frutti di mare giapponesi fin dall’incidente del 2011, è la più idrofoba di tutte. Ed ha annunciato che si giocherà la carta Onu. Perciò scorie nucleari dormite tranquille.

Memoria cortissima.

FLOP LAST MINUTE

RECEP ERDOGAN

Una cosa non doveva fare proprio e proprio quella cosa ha fatto. Cioè partecipare in prima persona alla parata militare con cui le truppe dell’Azerbaigian hanno festeggiato la ‘pace’ con l’Armenia per il conflitto-sanguinaccio sul Nagorno Karabakh. Perché Recep Eedogan, capoccia della Turchia sfacciatamente filo azera, lo sapeva benissimo che quella presenza avrebbe assunto il tono di una provocazione. Ed avrebbe rimesso a fuoco i contorni di una pace che è stata più capitolazione di uno fra i contendenti che accordo fra entrambi. E dato che da quelle parti la situazione è più esplosiva di un mortaretto in un termitaio lui poteva, anzi, doveva risparmiarsela, la sua presenza tronfia sul palco.

Palco davanti al quale hanno sfilato scalciando l’aria simmetrici e fieri oltre 3000 soldati azeri. Fanti in coda ai quali hanno marciato due battaglioni di commando turchi e, su in cielo, un intero reparto di droni tattici sempre con la mezzaluna in contrassegno.

Per una manciata di ore Baku, la capitale azera, è diventata palcoscenico del pernacchione impunito che vincitori e sponsor hanno fatto a vinti e altri sponsor, quelli che ‘stavano’ con l’Armenia.

E non sta bene, non solo in punto di etica. Quella è come il coraggio di Don Abbondio: se non ce l’hai non serve invocarla. No, non sta bene soprattutto in punto di equilibri tanto fragili da chiamare a gran voce una discrezione che Erdogan non ha avuto.

Guappo pericoloso.

(Leggi qui i numeri precedenti di Internazionale)