Addio compagni carissimi: quando morì il Pci

La Bolognina e poi il grande salto incontro alla Storia: 33 anni fa il sogno del comunismo "all'italiana" si arrese all'evidenza dei fatti

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Sì, è vero: sembra che di anni ne siano passati molti di più. La sensazione è così netta per un motivo che raccoglie insieme tutti i rivoli di una storia che, in quel periodo, si fece estuario. Troppe cose in pochi anni, dalla svolta della Bolognina ad oggi ed in mezzo quel 3 febbraio del 1991. Troppa libertà diventata obiettivo concreto invece che invocazione sommaria e intimidita dalle occhiatacce di Mosca. E soprattutto troppi comunisti che nel frattempo sono andati a vedere di persona se il Paradiso in cui dicevano di non credere ci sia meno. Perché sì, per lo più i comunisti in Italia vanno in Paradiso come diceva il celebre documentario di Elio Petri nel 1971. E non c’è storia che tenga se non si parte da questo preambolo fondamentale. Altrimenti oggi ricorderemmo la fine di un Kraken, non quella di un sogno.

Anche al netto delle sue non poche contraddizioni e di come esse fecero massa in errori e perfino aberrazioni, il Pci ebbe un merito assoluto. Quello di aver addomesticato il leninismo orientale e di aver dato bizantinamente vita ad un lungo esperimento di sinistra occidentale. Un esperimento nato ineluttabilmente come democratico e mascherato per anni come necessario perché contingente alla storia, hegheliano peffinta insomma. Sofferto, incoerente, spesso foraggiato da chi ne fomentava strategie geopolitiche cupe, ma perfettamente compiuto in quanto a collocazione.

Ci diede l’input delle lotte sociali e di classe ma non ci diede mai il fiele amaro della loro massimalizzazione sistemica. E quando questa fece capolino da dietro mephisto, volantini e P38 contribuì ad estirparla.

Franco Assante e le sue irruzioni

Franco Assante

E quel processo si concretizzò anche con tratti di inconsapevolezza, secondo un lungo percorso che disegnava già l’esito finale. Anche quando parlare di quell’esito significava fare incazzare come aspidi Amendola e Paietta. Lo spiegava meglio Franco Assante, quel processo per cui i comunisti italiani sono per lo più gente che “non mangia i bambini”.

Lo faceva da laico osservante qual era. A fine 2009 fece irruzione come suo solito in redazione a Cassino, a La Provincia. Era uno dei (rari) momenti di stanca della giudiziaria e ci trovammo come sempre accadeva in quei casi. Quindi io a fumare e lui appollaiato sulle sue immancabili scarpette ginniche a cazziarmi perché fumavo.

Mi fece leggere il suo intervento da “già parlamentare” previsto come corsivo per il giorno dopo ed io gli dissi che era pertinente. Lo feci distrattamente, con la diligenza protocollare un po’ ipocrita di chi deve essere più educato che cartesiano. Ma certe giornate proprio non erano foraggio adatto per i raggi X alla inquieta politica cassinate, ai comitati anti Tarsu. A quelli ed al dopo Bruno Scittarelli che già si profilava tra le pieghe di un bilancio divisivo che sarebbe culminato con la fine dell’amministrazione l’anno dopo.

Dal Lingotto alla caduta di Scittarelli a Cassino

Enrico Berlinguer a Venezia nel 1980 (Foto: Gorup de Besanez)

Due anni prima c’era stato il Lingotto, c’erano stati il discorso di Veltroni e la nascita del Partito Democratico. E siccome quando ero stanco mi piaceva polemizzare piuttosto che assentire, con Assante ci ritrovammo a parlare di quello. Cioè di come accidenti fosse stato possibile passare da Berlinguer alla crasi con la Margherita, via Bolognina e via Achille Occhetto, ovviamente.

Io conservatore, lui vecchio comunista piegato alla storia che il comunismo lo aveva cassato, finì che quasi litigammo. Alla fine mi guardò dritto con quegli occhietti all’orientale e chiosò il tutto come una frase secca: “Fare politica disprezzando la storia che rappresenti è inutile, ma fare politica ignorando quello che già sei diventato è dannoso. E questo vale per tutti, anche per te”. Alludeva a Fiuggi.

Me la mise sotto il muso così com’era, la cosa: dura, complicata e semplice al contempo. Ma con quella lente di ingrandimento cominciai a pensare alla Bolognina con occhi diversi. E capii che non poteva essere altrimenti. Capii che i comunisti non cambiarono nome perché era cambiata la storia, ma essendo già cambiati loro dovettero mutare nome e rotta perché loro, comunisti in quel senso là, non lo erano più da tempo. Più o meno da quando il mondo impazzì su certe direttrici: quella del progressivo sfaldamento dell’Unione Sovietica e dell’est di Varsavia culminato con la caduta del Muro di Berlino.

Cosa accelerò il cambiamento

Il Crollo del Muro di Berlino (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Poi quella degli ultimi ma terribili spasmi del socialismo reale, in Afghanistan con l’invasione di Mosca, in Polonia con gli alamari bulli di Jaruzelski ed in Cina con piazza Tienanmen. Ma c’era qualcosa di più profondo ed Achille Occhetto lo aveva intuito.

Lo fece con la sofferenza di chi sta seppellendo un brand etico ma con la fermezza di chi sa che quei funerali sono necessari. A celebrare quelle esequie però non fu solo il poltergeist dell’utopia socialista, ma un dato speculare irripetibile. In quegli anni l’Occidente era ancora ricchissimo e spensierato. Ed in Italia la grande mannaia di Tangentopoli stava ancora facendo il suo ultimo giro dall’arrotino prima di calare sul collo della Prima Repubblica.

Che significa? Sì, che il comunismo morì non solo perché perse un derby ideologico – quello lo vedeva sconfitto in partenza – ma perché mai come in quegli anni essere occidentali e non troppo comunisti era materialmente molto meglio. C’erano sì tensioni e disparità sociali, ma si viveva ancora nella broda post anni ’80 del “malemale qua non sta nessuno”. Di debito pubblico poi ne gufava solo Il Sole 24 Ore. Quella cosa là, così superficiale ma così cardinale, funse da accelerante.

Parole come pietre a via Tibaldi

Achille Occhetto (Foto: Daniele Scudieri / Imagoeconomica)

Il 12 novembre del 1989 Achille Occhetto arrivò alla Bolognina per i 45 anni della battaglia al rione Navile e guardò in faccia un pubblico fatto per lo più da ex partigiani al 17 di via Pellegrino Tibaldi.

E scandì che si doveva “andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza. Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i veterani e gli disse: voi avete vinto la Seconda Guerra Mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni. Molti, specie quelli canuti, lo guardarono come si guarderebbe un Giuda beone, ma lui incalzò. “Non dobbiamo continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso”.

Lo stesso Occhetto li ricorda bene, i giorni precedenti a quell’uscita. Lo spiegò a Repubblica, il giornale che forse con Eugenio Scalfari per il cambiamento aveva spinto di più. “Era il 9 novembre 1989 ed ero a Bruxelles per incontrare il leader laburista Neil Kinnock. Rimanemmo ipnotizzati di fronte alle immagini televisive che giungevano da Berlino. Stavano picconando il Muro. Dissi subito ai giornalisti: ‘Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento’. ‘Cambierete nome?’ mi domandò Kinnock. Ed io: ‘È molto difficile, è molto difficile, è molto difficile’.

La mozione di Occhetto a Rimini

Fu difficile ma alla fine avvenne, poco più di un anno dopo. Il 31 gennaio del 1991 a Rimini si aprì l’ultimo congresso del PCI, il XX. Sul tavolo c’erano tre mozioni già elaborate a valle del precedente.

Quella di Occhetto, per aprire la fase costituente che avrebbe consegnato nome e mission primeva del Pci alla storia. Quella di Alessandro Natta e Pietro Ingrao, con nome, simbolo e valori intoccabili. Infine quella di Armando Cossutta, come la precedente ma ancor più massimalista, e che poi avrebbe condotto al purismo anacronistico del Partito della Rifondazione Comunista. Vinse la mozione di Occhetto con l’appoggio di gente come Walter Veltroni, Massimo D’Alema e Piero Fassino, le young guns di allora.

Il 3 febbraio venne approvato lo scioglimento del Partito Comunista Italiano con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti. Occhetto sarebbe diventato il primo segretario del Partito Democratico della Sinistra e Stefano Rodotà ne sarebbe stato il Presidente.

La quercia, le radici e i nuovi rami

Non scomparvero subito, la falce ed il martello, ma andarono a foraggiare simbolicamente ed in modalità più defilata le radici di una quercia che sparava i suoi rami al cielo. Come se ci fossero al contempo il pudore di tradire un’icona ed il coraggio di metterla in soffitta. I nuovi rami di una nuova pianta che era già a dimora da tempo nel terreno.

E che 33 anni fa si limitò ad uscire dalla serra in cui già aveva germinato quando capirono tutti che sì, i comunisti italiani vanno in paradiso. Perché, piaccia o meno, cambiarono il comunismo prima ancora di cambiare loro.