Due Meloni per due tavoli: spiccia in Italia ma in Europa tiene l’unanimità

Tutte le partite aperte di una premier costretta a contraddirsi praticamente ogni giorno e che a volte fa votare "strano" il suo partito. Scontentando Tajani e Fazzone.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Se c’è una cosa che sopra tutte le altre Giorgia Meloni ha sempre messo nella sua personale lista dei desideri quella è l’agilità di manovra in politica. Mezza intruppata già di presidenzialismo e capa di un Partito che si è fatto le ossa cazziando governi imballati dai mille passaggi della democrazia parlamentare, la premier alla fine ha svoltato. O almeno così sembra, a considerare la difficile partita che ha avviato con se stessa, con le Camere e con gli italiani sul premierato forte.

Il guaio della politica con i sistemi complessi di mezzo è proprio quello: le cose che pubblicizzi abbestia a casa tua a volte vanno in netta contraddizione con le cose che devi pubblicizzare nel condominio.

E in quel caso scoppia il casino. Scoppia perché sarà anche vero che Giorgia Meloni in Italia parla per lo più (con robuste e dignitosissime nicchie senzienti) ad elettori medi che credono che l’artemisia curi il cancro mentre in Ue deve vedersela con i suoi parigrado. Tuttavia e ringraziando Iddio anche nel nostro Paese le contraddizioni non sono state messe del tutto al bando. Perciò quando ci cade una premier che si è dovuta rimangiare già sette bocconi del suo bolo la cosa sopravvive alla mediocrità di chi la recepisce per sommi capi.

La frase che “inchioda” la premier

Andiamo in breve dissolvenza e tiriamo fuori dal cassetto la frase clou con cui la premier, nell’ormai famoso e datato video-spot, poneva una domanda secca agli italiani. “Volete decidere voi o i Partiti?”.

Cosa sottintende quel periodo? Che alla Meloni, impegnata nel poker-day di Atreju di ampio respiro collegiale, piace la politica decisionale spiccia, quella che non mette pastoie. Quella che rifugge i formalismi o le blindature scaturite da regole troppo adipose. Difficile capire, se la chiave di lettura è questa, come mai però in Europa Fratelli d’Italia abbia votato contro l’abolizione dell’unanimità.

Spieghiamola: una delle regole più farraginose del Parlamento Europeo è il meccanismo di unanimità di voto. Cioè quella che ha impedito di prendere decisioni nette ed inequivocabili e che ha fatto diventare Bruxelles un mezzo soprammobile planetario, specie ora che con le crisi dei fondatori non comanda più nessuno.

Ue che fa un po’ come la migliore Onu: “Condanna fermamente” ma non dà troppi calci nel sedere a chi scantona.

Basta un no e in Ue oggi salta tutto

Giorgia Meloni

Con l’unanimità se anche un solo Paese è contrario ad una risoluzione o ad una proposta di legiferato salta tutto, semplicemente non si fa. Ci si aspettava quindi che il Partito di una premier decisionista al punto da tentare un mezzo suicidio con una riforma nazionale in tal senso seguisse la scia di quel mood.

E invece no, di Meloni ce ne sono due e ce n’è una per ogni tavolo su cui gioca. Al di qua delle Alpi quasi cazzia i cittadini se si facessero scappare l’occasione di dare saldezza e velocità agli esecutivi. Tuttavia la premier in versione transalpina nega se stessa e, attenzione, non lo fa perché è bipolare, ma solo perché è scaltra. Scaltra al punto tale da scommettere tutto sul gap di ricezione della sua ricetta politica tra italiani e comunitari. Ma dove sta la scaltrezza?

Innanzitutto nel mettere fuori gioco il vero avversario, quello strutturato, per le Europee del 2024, che non è la socialdemocrazia ma Forza Italia ed il Ppe. L’altro ovviamente è la Lega. Gli azzurri di Antonio Tajani hanno infatti votato a favore del voto a maggioranza qualificata in alcuni settori sensibili.

Il sì di Tajani e il parere di Fazzone sui decreti

Antonio Tajani (Foto: Sergio Oliverio © Imagoeconomica)

E Tajani non è più un commissario debole che gioca a fare il Caronte, ma un aspirante segretario che con la surroga di Licia Ronzulli da capogruppo in Senato a favore di Maurizio Gasparri ha calato una briscola. Con la quale ha anche rimesso in asse il potentissimo conducator laziale Claudio Fazzone. Cioè proprio colui che sul ricorso eccessivo ai Decreti legge da parte del governo era quasi “insorto”, dichiarando di non condividere quella rotta smart.

Che significa? Che in alcune cose sarebbe bastato, se fosse passata la risoluzione, che la più parte dei Paesi membri fosse d’accordo, per azzittire chiunque avesse voluto impugnare il suo singolo no come un maglio. Una diga con cui fermare azioni non in linea con le rotte nazionali. Rotte come quelle di Viktor Orban ad esempio, che sull’Ucraina ha messo più bastoni tra le ruote lui di un legnaiolo kentuckyano.

Va bene l’asse Ppe-Ecr, ma Viktor?

E qui l’arcano si svela: Giorgia Meloni ha sì in animo di vincere alle Europee grazie anche ad una base robusta di popolari, ma sa benissimo una cosa, anzi, due. Che la Lega di Matteo Salvini non beccherà palla malgrado le trombe levate ai cielo e che Silvio Berlusconi è morto. Perciò che Forza Italia è molto sotto al suo massimale di forma per fare risultato anche a fare la tara al salto di qualità orchestrato da Tajani. Perciò ha deciso di sfidare la sorte ed entrare in contraddizione con se stessa pur di assicurarsi (anche) una solida base sovranista con i “compari” dell’Ecr di cui è presidente.

E il Carroccio? Un bel no all’abolizione dell’unanimità anche da lì, ma magari con la parziale giustificazione che europeisti genuini i leghisti non lo sono mai stati. E che tra l’altro devono fare a Meloni quel che il levriero fa alla lepre in cinodromo.

Perfino un moderato savio come Mario Abbruzzese, in corsa per Bruxelles sotto egida leghista, nei suoi post preferisce argomenti interni o energetici di ampio respiro. Tra le voci su cui una maggioranza qualificata sarebbe bastata se fosse passato il voto c’era la procedura dell’articolo 7. Quella cioè con cui si arriva a sanzionare i Paesi che violano lo stato di diritto. Nulla da fare però: Fratelli d’Italia ha votato contro la fine dell’unanimità e la risoluzione sulla riforma dei trattati.

Le “grandi sfide” ma con mezzi piccoli

Il Foglio è salace: “Eppure è proprio Giorgia Meloni che sostiene che l’Ue dovrebbe occuparsi delle grandi sfide, non di piccole cose. Il veto costituisce un serio ostacolo in politica estera”. E c’è un paradosso in più che adesso spiega meglio la soluzione albanese, quindi extra europea, voluta dalla premier sul tema dei migranti. Sempre il solito trucido Orban minaccia da settimane il veto su più fondi Ue per le migrazioni.

Come fa una leader italiana, frenata in Albania dalla Corte Suprema locale, ad affermare di voler risolvere il problema se poi con un voto dà campo libero a chi quel problema non lo vuole risolvere?

Foto: Carlo Lannutti / Imagoeconomica

Senza contare che il focus della vicenda era quello della riforma dei trattati, cioè dello strumento per accogliere ad esempio Ucraina e Moldavia in famiglia in maniera più speed e più smart. E con la prima che da Mosca adesso le sta buscando sul serio e con gli Usa che nel 2024 potrebbero riscoprirsi trumpiani.

La mezza sòla per Volodymyr

Poche ore fa, a margine di esordio del Consiglio Ue, Meloni ha avuto un bilaterale con Emmanuel Macron e per un caffè al volo si sarebbe fatto vivo anche Olaf Scholz, una sorta di “ritorno all’ortodossia europea”, dunque. Sarebbe interessante sentire Volodymyr Zelensky in proposito, ma al momento lo scenario è già tesissimo di suo qui da noi. Dove cioè la maggioranza di governo si è spaccata ancora una volta.

E stavolta non per colpa di oscuri sabotatori, ma di chi di essa doveva essere mastice, garanzia e punto di equilibrio. Ma all’equilibrio Meloni sembra aver preferito l’equilibrismo. Tra Roma e Bruxelles, tra la praticità proclamata ed il cavillo tenuto in piedi, tra Meloni e Giorgia. E tra elettori da blandire tra quattro anni ed elettori da allamare tra pochi mesi.

Dopo un Atreju a cui ha invitato tutti per apparire magnanima e dialogante. Con tutti, cioè con nessuno in particolare.