Irpinia 1980: una scossa lunga 43 anni fra morti e fienili diventati piscine

L'inferno che cancellò centinaia di Comuni e che innescò un immenso scandalo sulla ricostruzione di cui sappiamo qualcosa anche qui

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Alle 19.34 del 23 novembre 1980 la maggior parte dei cittadini del Cassinate e della Provincia di Frosinone era in casa in quella paciosa bolla di tepore che precede le cene nella stagione fredda. I giornali erano solo di carta, in televisione se cominciava un altro programma sul Secondo Canale appariva un triangolino bianco intermittente sul Primo. La sola cosa europea erano Giochi Senza Frontiere e di “social” si conoscevano solo i cazziatoni al bar tra tifosi di calcio e democristiani/comunisti. I socialisti erano ancora come l’elefante bianco: rari e buoni per quando il Fernet Branca ti spingeva alla profondità di pensiero.

Il focus era quello di un’Italia pallonara che aveva seguito la vittoria della Juventus sull’Inter per 2-1 e la trasferta della Roma a Cagliari. Con esse spiccava poi la mesta militanza in B di Lazio e Milan, coinvolte nello scandalo del Totonero un anno prima. Gli eroi erano Brady per la Vecchia Signora e Virdis per il Cagliari che le suonò alla Maggica. Il Frosinone calcio approdò tra i professionisti di C2 e il capoluogo si godeva quel momento. Le cronache dell’epoca (chiediamo aiuto per l’esattezza) citano una formazione tipo con Ferrari, Atzori, Sesena, Ciavattini, La Preziosa, Gorghetto, Cari, Farinelli, Maiolino, Vergili e Morelli. A fine mercato era arrivato bomber Santarelli, uno da annali pavesati.

Quando anche Cassinate e Ciociaria ballarono

Quando all’improvviso i comuni laziali e casertani più vicini all’Inferno tellurico che si scatenò nel buio serale iniziarono a ballare per 93 interminabili secondi di magnitudo 6,9 Richter la domenica della brava gente morì. E fu il panico. San Vittore del Lazio, San Pietro Infine, Mignano, Rocca d’Evandro, Cervaro, la Valle dei Santi, il Cassinate tutto e tutta la provincia di Frosinone, in particolare a sud di Ceprano, percepirono la “botta” con una violenza inaudita. Mezza Italia la sentì.

La gente si riversò in strada, le donne urlavano, gli uomini afferravano i bambini e i bambini si tatuarono quell’orrore nella mente e nel cuore. Lo fecero limbicamente mentre caracollavano tra braccia frenetiche e su gambe che facevano le scale a tre per volta. Le case letteralmente facevano l’onda avanti e indietro e non la smettevano. Non finiva più.

In un primo momento il terrore di ciociari e cassinati fu tiranno, nel senso che tutti credettero che una “schicchera” così forte fosse figlia del fatto di un epicentro tutto locale. Più forte di come si era sentito là non poteva essere.

Il vero inferno, poco più a sud

Poi i nostri genitori si accorsero che l’Inferno vero era stato altrove, più a sud. Ne ebbero contezza con la greve e colpevole lentezza con la quale arrivavano le informazioni dalle province di Avellino, Benevento e Potenza e dal Napoletano. Poi, per gradi lenti, la Rai iniziò a sciorinare i nomi che sarebbero stati totem dell’orrore, quello forte davvero: Balvano, Sant’Angelo dei Lombardi, Giffoni Valle Piana, Calabritto, Castelnuovo di Conza e trecento altri.

Non era come oggi e quei comuni non li conosceva nessuno tranne i camionisti, ma imparammo tutti a conoscerli nella peggiore delle maniere. Le case, vecchie e fatiscenti, si sbriciolarono per la più parte come “nidi di vespe”, avrebbe detto Alberto Moravia. I nidi di vespe sono fatti impastando saliva e cellulosa, proprio come quelle case tirate su a sputi.

Le dimensioni della tragedia affiorarono per step: i telegiornali parlarono di centinaia di morti, poi di “migliaia”. Alla fine l’orrore in cifre si fece tondo e nero. 300mila sfollati, 9mila feriti e circa 3mila vittime con le membra sfasciate da muri e solai. Un’ecatombe a metà strada tra leggi della natura, che sono inflessibili, e leggi umane, che per lo più vengono ignorate fino a quando la loro assenza non diventa cimitero.

L’input per creare la Protezione Civile

Giuseppe Zamberletti (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Quella tragedia diede input alla nascita della Protezione Civile grazie a Giuseppe Zamberletti, “nonno” istituzionale anche dell’attuale presidente della Pisana Francesco Rocca. Accese la miccia del volontariato in purezza ma corale le cui prime avvisaglie si erano avute con l’alluvione di Firenze del ‘66.

E come accade per tutte le tragedie italiane, il terremoto dell’Irpinia cambiò faccia nei mesi, e passò da orrore su cui agire e riflettere ad occasione. Occasione grossa, forse la più grossa e ghiottamente sporca di sempre in Italia. Tecnicamente ed a bilancio computato con la verve ragioniera e giolittiana dell’epoca i comuni colpiti dal sisma furono 687, 542 in Campania, 131 in Basilicata e 14 in Puglia: l’8,5% dei comuni italiani che allora erano 8.086.

Definiamo “colpiti”: nessuno volle mai tracciare la linea di demarcazione. Il marker tra i comuni che erano stati sbriciolati o danneggiati dal terremoto e quelli in cui era stato avvertito vigorosamente ma in maniera meno strutturale. Il risultato? Circa 60mila miliardi di aiuti per la ricostruzione che da fiume gigante si spersero in diecimila affluenti ingordi.

Festa grande per gli sciacalli: 60mila miliardi

Sandro Pertini ed Arnaldo Forlani in Irpinia

Somme dirottate ad hoc da consorterie, malommi, camorre e politicuzza vampira verso luoghi ed ambiti che spesso non abbisognavano di tutti quei soldi. L’orrore ci mise pochi anni a diventare farsa sconcia.

Ci furono fienili che divennero piscine, case con intonaco scrostato che vennero interamente rifatte, industrie che sorsero come funghi e consorzi che fallivano subito dopo aver incassato i fondi. Le amministrazioni comunali avrebbero governato quei fondi per costruirci fortune elettorali decennali. E quelli che il terremoto lo avevano sentito davvero? Quelli coi morti in casa, i feriti storpi in ospedale e con le case piallate a livello del sottosuolo?

A loro andarono briciole lente a galla in un oceano di lacrime. Tanto lente e minimal che un Sandro Pertini incazzato come solo Pertini sapeva incazzarsi fece venire la pellagra ad Arnaldo Forlani che di fare quello che voleva fare glielo aveva sconsigliato con il batticuore. Volò in elicottero sui luoghi dell’ecatombe, atterrò accolto dal potentino Emilio Colombo che all’epoca reggeva la Farnesina, si guardò intorno, chiese e al ritorno parlò.

L’accusa di Pertini e l’imbarazzo di Forlani

E disse: “Sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo, la disperazione poi dei sopravvissuti vivrà nel mio animo. Sono arrivato in quei paesi subito dopo la notizia che mi è giunta a Roma della catastrofe, sono partito ieri sera. Ebbene, a distanza di 48 ore, non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari!. Il Presidente della Repubblica italiana denunciò quella parte dell’Italia che su una tragedia di portata epocale era stata lumaca e talpa forse come non mai.

Saltò qualche testa, Forlani e Ciriaco De Mita masticarono amaro e la magistratura istruì una serie sconfinata di fascicoli sui singoli casi. Ma il gioco sciacallo non si fermò: mai come in quegli anni sindaci, ingegneri, geometri e periti divennero sovrani assoluti. La più parte di un processo legittimo per ricostruire quel che si era perso. Altre volte, e non poche, di un pescaggio nefasto con cui si certificava che una casa sbrecciata era da rifare tutta. Che un opificio nuovo di zecca sarebbe sorto a discapito di una scuola, che un intervento aveva la patente per calamitare i fondi. Molte operazioni furono legittime ma sciacalle. Altre furono illegali ma irrilevate. Altre ancora legali ma tardive.

La rotta di ricostruzione non fu urbanistico-abitativa, ma industriale, come a dire che per una carestia non compri sementi, ma l’aceto per l’insalata. La camorra si prese una fetta gigantesca di quei soldi, perché quando le terra trema nei posti dove la terra già soffre un giogo le cose vanno così. Molti piangono, qualcuno ride e moltissimi “fottono”. Ma attenzione: la camorra fu parte grossa ed incentivo del problema, non tutto il problema. Mangiarono tutti, in quegli anni.

La manna per i Gionta e per le altre camorre

Giancarlo Siani

Il Clan Gionta di Torre Annunziata, quello che 5 anni dopo innescò l’uccisione da parte dei maranesi Nuvoletta di Giancarlo Siani, fu esempio fulgido. Si assicurò la maggior parte di assemblaggio e forniture di reti elettro saldate, il must ricostruttivo dell’epoca. Poi mise le zampe nei cementifici accordandosi con gli aversani dei Bardellino e fece soldi a bancali.

Ma il binario di arricchimento illecito era doppio, perché i malommi intervenivano direttamente sulle amministrazioni e sui tecnici per indirizzare al millimetro gli interventi su ditte compiacenti. In sette anni da quel maledetto 23 ottobre di 43 anni fa i salassi ai fondi per la ricostruzione non si contarono, da quanti furono.

Gli ultimi fondi e i prefabbricati, oggi

A Torre Annunziata gli ultimi soldi sono arrivati nel 2009: per il rione Penniniello e per 1,5 milioni di euro. Chi comanda oggi lì? Esatto: i Gionta. Il costo finale per il Salernitano e l’Avellinese ad esempio lievitò dalle somme originarie di 12 e 17 volte. E loro? E quelli che i loro morti li andavano a trovare al camposanto ormai da anni con il dolore mesto e sordo delle cose lontane ma incancellabili? Il 23 gennaio di quest’anno la Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere sulla legittimità del trasferimento dei prefabbricati “in proprietà, a titolo gratuito, insieme alle parti comuni, a coloro che ne hanno avuto formale assegnazione, ancorché provvisoria”.

I prefabbricati. A gennaio del 2023 e per fatti del novembre 1980. Mentre magari oggi nel Cassinate c’è qualcuno che ha una seconda casa rifatta a puntino per due placche di intonaco venute giù e due tegole spiaccicate sull’asfalto. E i figli ci fanno le estati fighe “ar paesello”. In Italia. Che sta in Europa e mette a terra il Pnrr. Che si contrabbanda come parte dell’Occidente, quello evoluto. Buio, sipario. E silenzio, perché a volte mentre ricordiamo le nostre vergogne i morti ci ascoltano.