Quando Riina fece ammazzare Reina e “si cavò il dente” della Dc aperturista

I colpi di pistola mafiosi del 9 marzo 1979 contro il segretario provinciale della Dc di Palermo che stroncarono una vita ed un sogno

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Lo rivendicarono quelli di Prima Linea, l’omicidio di Michele Reina, ma si capì fin da subito che quella era una pista marcia. Un tentativo di sviare le indagini da un delitto che ebbe la sua polpa nel copione politico che le coppole storte odiavano di più. Molto più di quanto lo odiassero i terroristi. Quello di una Democrazia Cristiana pronta al dialogo con il Pci e quindi mondata da certi suoi “appetiti” e finalità obiettive che per parte ne facevano la sponda ideale della mafia.

Era un dente da cavarsi, quello del Segretario provinciale della Dc palermitana. Era una scheggia impazzita, giusto come quel Piersanti Mattarella che avrebbe pagato pegno omologo un anno dopo. Gente strana, pericolosa per le famiglie già in bilico tra il sultanato chic della mafia cittadina e le invasioni barbariche dei viddani corleonesi. Gente che non amava Vito Ciancimino, che non trescava con i costruttori e che, “horribile dictu”, come Reina apriva ai comunisti.

Cosa non andava giù alla mafia del Pci

Non c’è mai stato nulla di personale, tra quelle coppole storte, contro il Pci. Certo, dominava ancora la mentalità agraria che vedeva in ogni campiere un servo della gleba, ma le cose erano cambiate, ora comandava il cemento. Semplicemente da metastasi in nera purezza ficcate dentro al potere i criminali di ghenga non concepivano la politica se non come un orto da coltivare secondo interessi di classe decisoria. Loro volevano comandare su chi comandava.

Ecco, il Pci si occupava di poveracci e non poteva creare nuovi ricchi, mentre la Dc si occupava di ricchi e perciò non doveva guardare – empatica o furba che fosse – ai sistemi dei poveracci. E chiunque mettesse a crasi sia pur tattica scudo crociato e falce e martello meritava di morire. Perché era una buca grossa lungo la strada della connivenza utile.

Negli anni ‘60 Michele Reina era una specie di star dell’eccentricità avversa alle baronie. Aveva lasciato i fanfaniani per accostarsi alla corrente di Salvo Lima ma aveva fiutato il marcio. Non tanto quello che si sarebbe concretizzato in seguito con l’uccisione del proconsole andreottiano dopo le sentenze de “U Maxi”.

Addio a Fanfani, arriva Salvo Lima

Giovanni Falcone Foto © Carlo Carino / Imagoeconomica

No, Reina aveva fiutato un “ricchismo” ortodosso ed un corporativismo imprenditoriale che a lui non piacquero. Nel 1976 venne eletto segretario provinciale della Dc a Palermo, quella stessa Palermo sotto scacco di lottizzazioni talmente massive e sfacciate che la storia alla fine tolse una “c” e parlò di sacco. Il più grande sacco urbanistico della storia moderna italiana.

Il clima sul fronte dei “punciuti” era quello che anni dopo avrebbe messo nero su bianco Masino Buscetta seduto ad un tavolo di fronte a Giovanni Falcone.

La mafia cittadina dei Bontade-Inzerillo-Greco (sia di Croceverde che di Ciaculli) ancora teneva i fili del potere ma era già insidiata. Dai viddani, i corleonesi di Totò Riina che volevano fare affari dove prima avevano mangiato solo gli spocchiosi componenti della Commissione. Quelli ricchi, ben vestiti e con gli Alfoni blindati, gente che nella valutazione del picciotto medio e lercio di San Giuseppe Iato stava a metà fra il damerino ed il “puzzone”.

Arrivano i viddani: tremate principi

Foto: Antimafia Papers

Chi decise che Michele Reina doveva morire sparato e lo fece quel 9 marzo del 1979? Buscetta e Ciccio Marino Mannoia lo avrebbero spiegato anni dopo, lasciando però non poche zone d’ombra su un fascicolo che restò concettuale fino a sentenza cassata. Fu la Commissione nella sua interezza.

Il politico era appena salito sulla sua Alfa assieme alla moglie, Marina Pipitone e due amici, che da una Fiat Ritmo che ne guatava le mosse uscirono due ceffi a volto scoperto. Quattro colpi di 38 in rapida successione di cui tre andarono tragicamente a segno su Reina: a collo, volto e petto. Un altro finì nella gamba dell’ex patron dei vini Corvo Mario Leto.

Ci furono indagini all’inizio ansimanti: quelli erano gli anni di piombo in fase terminale e il delitto era politico. E non esisteva ancora uno schema, un protocollo operativo che mettesse nella stessa casella di analisi i crimini violenti e il sottobosco fosco della cosa pubblica. Come al solito toccò ai boderline imboccare la via. Nel 1984 con Gianni de Gennaro e Giovanni Falcone a verbalizzarlo Masino Buscetta schiuse lo scenario di una mafia che ammazzava politici scomodi e mise assieme i delitti Reina e Mattarella.

Il mondo, Cassino e l’università

Il mondo intanto andava avanti. Cina ed Usa riallacciarono relazioni diplomatiche, Usa ed URSS firmarono il trattato SALT sulle armi nucleari. In quelle stesse settimane, a Cassino, stava per affacciarsi a trivio di regioni e captare anche una parte abruzzese l’Università di Cassino.

Ce la mise un consorzio di uomini guidato da Angelo Picano, che per amaro oblio pare non fosse tra gli invitati alla discussa inaugurazione di questi giorni con annessa “fuitina” di codazzo di Francesco Rocca. Chi disse che moriremo tutti democristiani aveva ragione, poco da fare. Picano era amico del ministro Riccardo Misasi e grazie al voto determinante del compagno di partito Rodolfo Carelli spuntò in Regione un ateneo monocentrico per la sua Città Martire.

In Sicilia dalle indagini sul delitto Reina spuntò un nome: Totò Riina, già sprezzante e capace di indirizzare le canne delle pistole ma ancora costretto a mercanteggiare le sue decisioni con la vecchia Cupola. O costretto a non informare se non a cose fatte la sua parte generalessa, quella composta da Stefano Bontade, Rosario Riccobono e Totutccio Inzerillo. L’istruttoria finale che mise assieme tutti i delitti politici divenne polpa per quasi 1700 pagine di requisitoria di Falcone nel 1991.

Funerale con due morti che camminano

Fu il suo ultimo atto dibattimentale e un anno dopo la toga morì a Capaci con moglie e scorta. L’uccisione di Michele Reina sfociò in una condanna a tutta la Cupola del 1995, confermata in Appello e Suprema. Michele Reina fu il primo politico del ‘900 a cadere sotto i colpi della mafia.

Ai suoi funerali parteciparono il segretario nazionale della Dc Benigno Zaccagnini, il giannizzero di Andreotti Franco Evangelisti ed i siciliani Piersanti Mattarella, Salvo Lima, Giovanni Gioia e Mario D’Acquisto.

Due di loro sarebbero morti per mafia entro il triennio successivo. Uno per averla contrastata ed un altro per averla corteggiata ma non soddisfatta.

Perché in quegli anni la mafia era il metro su cui misurare ogni azione. Ed ogni conseguenza. E dovremmo ricordarcelo tutti di più e meglio, spiegandolo ai nostri figli quando spieghiamo loro cosa sia la libertà e perché non è possibile scinderla dalla Legge.