Quel Pd che sul lavoro non sa più se negare se stesso o applaudirsi

I temi caldi che mettono la spunta ad una condotta "a due binari" e il fantasma di Renzi: da esorcizzare o rievocare. Alla bisogna

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

C’era una volta il Job’s Act di Matteo Renzi e con esso due letture del contesto: una che gridava alla precarizzazione per cui una parte del Pd Renzi non lo volle più. Poi un’altra per la quale si parlava di svolta e per cui Renzi non volle avere più nulla a che fare con il Pd. Tempi trascorsi, tempi che hanno lasciato strascichi, in positivo ed in negativo.

Come quando nel 2019 in provincia di Frosinone proprio il Job’s Act venne visto come un’occasione irripetibile di riscossa e il futuro leader di Italia Viva si piazzò un episodio specifico in bacheca Twitter. Cosa accadde? Che una ragazza di nome Claudia postò il coraggio che allora ebbe Francesco Borgomeo. L’imprenditore aveva “colmato” la voragine Ideal Standard surrogando quello spot agonico con Saxa Gres. (Leggi qui: La figlia dell’operaio scrive. E Grestone finisce sulla bacheca di Matteo Renzi).

Francesco Borgomeo alla Leopolda 9

Lo stesso imprenditore, un anno imprima nel corso della Leopolda 9 aveva fatto toccare con mano quelle che erano le leve concrete delle riforme messe a punto dall’allora Segretario Pd. E le declinò sul territorio, spiegando come era riuscito a salvare tre fabbriche. (Leggi qui: Borgomeo si prende la scena della Leopolda 9 con il miracolo Roccasecca).

Questo accadeva prima che sui cieli ciociari la burocrazia lenta e greve contribuisse ad una diaspora di imprenditori. Come avvenuto negli anni successivi con il vicepresidente di Unindustria Gerardo Iamunno che ha chiuso la sua Gran Tour a Paliano per trasferire tutto in Friuli Venezia Giulia; o con Catalent che ha riununciato ad un investimento da 100 milioni ad Anagni spostandolo nel Regno Unito.

La storia parabola ciociara del Job’s Act

Matteo Renzi alla Leopolda 11

Matteo Renzi fece della storia di Claudia una sorta di “parabola buona” anche del suo Job’s Act. Lo fece rammentando che “miracoli come ex Marazzi, ex Ideal Standard, Saxa Gres e Grestone nascono da strumenti come il Jobs Act, come Industria 4.0”. Cioè da legiferati figli di quando a Palazzo Chigi ci stava lui. Ecco, proprio sul lavoro quindi era sorta, come una faglia superficiale, la nettissima linea di demarcazione tra il Partito Democratico ed il leader di Italia Viva.

E da quella frattura si era ripartiti. Solo che mentre in geologia le fratture seguono la linea indefessa di ciò che non è mixabile, in politica spesso le faglie si stemperano. Lo fanno e diventano controsenso, o quanto meno paradosso su cui riflettere. Come il paradosso di un Pd che oggi sembra costretto a fare la lepre di se stesso sulla linea da tenere in tema di lavoro. Perché? Perché al Nazareno hanno moltissime idee, ma non molte di essere sembrano avere il crisma della univocità.

Spieghiamola prendendo in prestito la meravigliosa espressione usata da Luciano Capone su Il Foglio. “C’è ormai una costante nella linea del Pd rispetto alla politica economica. E’ contrario a ciò che ha fatto ed è a favore di ciò che ha contrastato”. Il timing a volte è lunghetto ma serve solo a far decantare meglio questo ossimoro in cui i dem di oggi vanno contro molto di ciò che i dem hanno detto ieri. E quando si parla di lavoro e della sua lettura in chiave politica non c’è pezza che tenga: il buco lo vedi sempre.

Jobs Act ti amo, no ti odio, anzi forse

Elly Schlein (Foto: Andrea Calandra © Imagoeconomica)

La grande stagione di riformismo di Renzi coincise a suo tempo con due cose. Cioè il mezzo spregio dell’ala Pd per cui quella era una polpetta liberista avvelenata e la decisione di una certa Elly Schlein di uscire dal Pd in polemica feroce proprio sul tema del Job’s Act. Tutto regolare quindi, anche a contare che oggi Schlein è Segretaria dem e che vorrebbe un referendum abrogativo del Jobs act.

In realtà quella soluzione draconiana è farina del sacco di Maurizio Landini ma la stagione termica dell’autunno sindacale e delle piazza ormai incombe e Schlein ha bisogno di leve per la sua linea, ci sta. Perciò qualche giorno fa ha detto che al Jobs Act lei è sempre stata “contraria. Per me si deve fare altro per diminuire la precarietà, i contratti a termine. Quindi seguiremo le iniziative della Cgil, perché condividiamo i problemi sulla precarizzazione del lavoro in Italia”. Sembra tutto inquadrato alla perfezione e messo a fuoco in omogenea condotta, ma c’è un però, il solito però di un Pd che ha quasi più chiavi di lettura che iscritti.

Da un lato c’è il muro costituzionale che è stato eretto a tutela del Jobs Act. In pratica sarà anche scomodo e brutto ma non è illegale in punto di Massimo Rango di Diritto. Dall’altro c’è una robustissima fetta di iscritti attuali del Pd che quella legge l’ha voluta e che ancora oggi la sostiene. Come la mettiamo dunque? Schlein è espressione del suo Partito o di ciò che lei stessa ritiene debba essere il karma del partito? Il Foglio affonda il coltello nella piaga e cita il caso scuola del Reddito di cittadinanza.

RdC, come ti cambio le carte in tavola

Non venne votato dal Pd con il Conte I, Pd che si tenne cheto con il Conte II e passò dalla fase avversa a quella dubitativa fino a quella di difesa “giapponese” di questi giorni.

Il sunto sembra essere non tanto quello di una ricerca perenne di consenso un po’ in modalità clochard, ma una cosa molto più strutturata. In tema di lavoro il Pd segue l’usta della sua sopravvivenza come sistema politico complesso e non quella di un elettorato che è costretto a spartirsi. Spartirsi con il M5S e con la varie leadership che si avvicendano al suo vertice, ciascuna con una sua idea perché ciascuna con un suo battage.

Manca quindi quella univocità che da pochi giorni ed in provincia di Frosinone è stata messa sul piatto ad esempio a Veroli. Cioè dove la Festa dell’Unità che ha preso avvio ieri sera sta consacrando la rotta di un Pd sempre plurale ma meno schizofrenico. Oggi parlare di lavoro come tema mainstream ed ignorare il bastione del salario minimo è come parlare di catena di montaggio senza citare Ford.

E purtroppo anche lì e sempre sullo scenario del lavoro i Dem paiono in sottile disaccordo con se stessi. Il salario minimo è roba che sta da sempre nel bigoncio dei Cinquestelle, piaccia o meno. Ma a suo tempo il Partito Democratico aveva una mission molto più delicata ed urgente. Vale a dire tenersi stretta la Cgil in una stagione nella quale il sindacalismo stava prendendo il largo dalle iperboli di una politica appesa ai suoi umori elettorali. Perciò i Dem non fecero nulla per approvare una cosa sulla cui mancata attuazione oggi ululano.

Sparta, Atene, Scilla e Cariddi

Giorgia Meloni

Ma l’attuazione non ci fu neanche quando governavano loro e tacciare il governo Meloni di cinica sordità liberal quando si è stati i primi ad avere cerume in condotto è quanto meno bislacco. Come la mettiamo? Si sta con la contrattazione collettiva o con il fatto che essa non deve prescindere da un tetto sotto cui non si scende? Si sta con il RdC o con la mistica della germinazione di opportunità lavorative?

E infine, si sta con i cascami di Renzi o contro il renzismo, con Scilla o con Cariddi, con Sparta o con Atene?

Con la rava o con la fava, con Brooke o con Sandokan? E quando gli interrogativi in casa sono troppi le risposte da dare all’esterno sembrano tutte sciape.

Con il Pd che ha bisogno di sale, il sale della coerenza per correre senza chiedere passaggi a chiunque passi sulla strada che fa.