Il generale che distrusse Montecassino e salvò Trieste: dalla furia titina

I destini incrociati delle 20mila e passa vittime delle foibe e di Bernard Freyberg: che arrivò a Trieste prima che diventasse "jugoslava"

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Era cominciato tutto molto prima che i “tommy” di Winston Churchill arrivassero col gessetto a separare famiglie e a dividere in due i paesi e perfino le singole case. I guai per chi, italiano, abitava in Venezia Giulia, Istria, Fiume e Dalmazia cominciarono subito dopo l’8 settembre del 1943. Era uno strazio di origini antiche, quello che si sarebbe consumato a guerra terminale o ormai finita. Aveva radici nel dissolvimento dell’esercito italiano dopo l’Armistizio. E per paradosso quello strazio fu in parte evitato sul campo da un generale che, a Cassino, si era fatto la nomea di insensibile macellatore di luoghi sacri.

Luoghi come Montecassino bombardata con moventi strategici e cancellata per motivi molto più prosaici. Accadde come da copione. Cioè come tutte le volte che dovevamo vedercela da soli. Fin quando nelle irrequiete regioni di confine orientale italiano c’erano stanziate le Waffen SS e la Wermacht alleata, da quelle parti le rivendicazioni erano sparute. Episodiche e già atroci. Era la dialettica buia della guerra, che non metteva i macellai tutti da una parte e le vittime dall’altra: ma che mischiava le carte in un unico blob infernale.

La ruspa macellaia di Tito

Il maresciallo Josip Broz ‘Tito’

I territori delle due capitali, Zagabria in Croazia e Lubiana in Slovenia, divennero teatro delle rinnovate scorrerie delle forze comuniste di Josip Broz. Noi e il mondo lo avremmo conosciuto col grado di maresciallo e col nome di Tito.

All’inizio i nemici erano gli “ustascia” di Ante Pavelic, truppaglia filo nazista capace di far impallidire i mentori germanici, da quanto era capace di aberrazioni. Loro ed i “domobranzi”: soldati chiamati alla leva in Slovenia nel 1940 per spalleggiare le terre facenti capo a Lubiana. Che era di fatto una provincia autonoma italiana né più né meno come Trento oggi.

Ma la storia non incede mai col piglio chirurgico delle cose acconce sia pur orrende, e presto la ruspa delle truppe di Tito iniziò a portarsi avanti tutti. E ‘tutti‘ voleva dire prima i fascisti italiani e poi semplicemente gli italiani che in quelle terre abitavano da sempre. Non erano combattenti e spesso non erano fascisti. Questo a meno di non voler considerare fascista chiunque fosse cittadino italiano. Ed inquadrato in un sistema complesso che, in quanto dittatura, dava per scontato che in ogni casa ci fosse un labaro aquilino o un “capoccione”. E che ovviamente puniva chi non ce lo avesse.

Carabinieri, poliziotti e finanzieri

La foiba di Pisino, in Istria, che fece parte dell’Italia dal 1920 al 1947 (Foto Michael J. Zirbes)

Il distinguo è importante: perché in ogni massacro, almeno all’inizio, la patente ideologica tende sempre a puntellare le sconcezze di quei momenti. E’ una orribile bugia. E quando certe bugie vanno avanti per decenni l’orrore diventa doppio. Perché decenni?

Perché il Giorno del Ricordo di circa 20mila italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe è stato istituito nel 2005. Un po’ tardi per riconoscere che le milizie jugoslave furono macellaie e che la prima parte della storia repubblicana fu orba nel fare memento di quello schifo. Ci fu dunque un primo momento, dopo l’8 settembre, in cui i titini si rivalsero dei fascisti e li ripagarono con la stessa moneta con cui erano stati “amministrati” assieme ai tedeschi.

In seconda fiata toccò a carabinieri, poliziotti e guardie di finanza. Alcuni di loro venivano dalle province di Frosinone e di Latina: lì erano stati mandati per servizio. (leggi qui: La settimana del ricordo, le vittime di casa nostra nelle foibe).

Se erano irreperibili si ripiegava sulle famiglie. Poi ci fu un momento terzo. Un debordare della furia in cui la sete di sangue divenne inestinguibile e si abbeverò alle gole di gente inerme, gente italiana, civili. Tutti quei momenti furono compiutamente ingiusti, ma quello che accadde a partire dal dicembre del 1943 fu molto più che ingiusto, fu barbaro.

La più orribile delle morti

Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albona d’Istria negli ultimi mesi del 1943

Entro gennaio 1944 erano morte già circa mille persone. Le raggruppavano sui bordi delle cavità carsiche del territorio e le legavano in una lunga trama di ferro mordace con del filo spinato. Poi sparavano, quasi mai alla testa, per lo più al torso.

Ma quel capolavoro infernale aveva bisogno di perfezionarsi in liturgia. Perciò dopo un po’, i titini, che in casi isolati ma accertati di rastrellamenti ebbero sodali italiani, iniziarono a prenderci gusto. Perciò sparavano col mitra Shpagin solo ai primi della cordata. Una raffica breve di devastante piombo 9 e poi il resto lo facevano tutto la forza di gravità e quella corda spinata abbrancata ai torsi di uomini, donne, anziani. I primi, quelli colpiti cadevano urlando mentre morivano fiottando già sangue e tutti gli altri venivano trascinati giù nelle spelonche sapendo che stavano morendo. Ma vivi.

Il sangue per molti di loro sarebbe arrivato dopo, quando le loro membra spizzavano le lame di roccia sporgenti dalle pareti o sul fondo delle foibe. Per altri morire divenne peggiore della morte: vivi, sfasciati nelle ossa ma coscienti, crepavano tra i gemiti e fissando le orbite spente di chi era atterrato già cadavere. Disegnandone con la mente ancora attiva la ventura putrescenza.

Trieste, arriva Freyberg: quello di Montecassino

Quelle zone erano state italianizzate secondo il cosiddetto “modello francese”, lo stesso che poi venne usato per ripartire le terre. La toponomastica divenne il simbolo di una contesa tra lingue, popoli e rivendicazioni. Poi arrivarono le truppe di Tito, che almeno all’inizio non erano comuniste autonome, ma avanguardia di Mosca. Cioè portatrici di una devastante forza d’urto materiale e psicologica.

Volevano la Dalmazia, l’Istria e sì, anche l’intero Veneto. Volevano stelle rosse fin giù alle rive dell’Isonzo. Il IX Korpus titino e la terribile Ozna, la polizia segreta, ci si misero con entusiasmo bruto, in quella “reconquista”. A marzo del ‘45 Trieste era minacciata e i fanti rossi ritennero che quella fosse la via di una giustizia ristabilita. Rimessa in asse con la mistica nazionale da quando, a Versailles ed a fine Prima guerra Mondiale, alla Jugoslavia si disse di no all’annessione di quelle terre.

A fermare i titini ci pensarono gli Alleati che dopo lo sfondamento della Linea Gotica stavano terminando la risalita della penisola e dilagavano in direttrice nord-nord est. Segnatamente una divisione fece argine ai rossi e salvò di fatto Trieste. Fu quella Neozelandese del generale Bernard Freyberg, inquadrata dell’Ottava Armata britannica. Militarmente fu un capolavoro, con due formazioni ad ingaggiare una gara di velocità per arrivare prime in settore urbano. Resta l’amarezza, per chi vive in queste terre all’ombra dell’abazia, per il ruolo nefastamente cruciale di un generale che fu tra i più fieri fautori della distruzione del monastero benedettino di cui nel 2024 ricorrono gli 80 anni.

Tutti o quasi zitti fino al 2005

Foto: Sgt. McConville / Collections of the War Imperial Museum

La storia è così: non crea eroi o macellai, ma solo caselle di opportunità. Che solo dopo vengono inquadrate in categorie analitiche di etica postuma. Ma presidiando in tempo Trieste, Freyberg scatenò la rivalsa slava. E fra maggio e giugno del 1945 l’orrore andò ad abitare nei petti di migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Partì l’esodo e partirono le stragi, le foibe si farcirono di cadaveri che alla fine toccarono quota diecimila.

De Gasperi elaborò una lista di nomi “di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia ed indicò in almeno 7.500 il numero degli scomparsi”. Erano e furono molti di più, forse più di 20mila, con 250mila esuli censiti.

E con una storia che, di quello sconcio, si dimenticò come di fa con le cose in cui hanno avuto mano la geopolitica e un lungo sodalizio politico volutamente orbo. Quelli e l’orrenda “comodità” di avere aberrazioni ancor più massive su cui costruire una legittima ma incompleta mistica del “mai più”.

Fino al 2005, quando al netto di lodevoli e spesso inascoltate eccezioni, ci accorgemmo tutti di quel filo spinato e di quelle agonie. Ed ipocritamente, quasi tutti, facemmo ammenda. E lo mettemmo nella teca degli orrori da non dimenticare più. Forse.