Magneti Marelli e il divorzio tra sinistra ed operai che “fa comodo” a tutti

Il duello tra Carlo Calenda e Landini. L'allarme Magneti Marelli che a Cassino ha già lanciato Formisano. E la battaglia che a Frosinone potrebbe dare frutti: buoni perché collegiali e senza passerelle

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

In Italia quando qualcuno toppa su transizione ecologica e dinamiche di produzione c’è sempre quello stesso qualcuno che evoca la “concorrenza sleale cinese”. Così la deindustrializzazione ha già mezzo colpevole in spunta e nessuno porta macchie addosso.

L’altra metà sta tutta in un loop incompleto ma che fa molto comodo al destra centro: è il divorzio tra la sinistra e il mondo operaio. Un divorzio che in parte c’è stato, ma che per una parte altrettanto congrua è solo narrazione di comodo per spiegare che il mondo non va più come prima.

Il ruolo dei sindacati: colpevoli o vittime?

Carlo Calenda (Foto: Andrea Panegrossi / Imagoeconomica)

Ne sa qualcosa Carlo Calenda, che ai cancelli dell’azienda agonica di Crevalcore, la Magneti-Marelli, ci è andato e si è presto un umiliante voltafaccia da parte di un gruppo di manifestanti intruppati.

L’epicentro della questione sono i sindacati: sono quelli “morbidi” e quiescenti che Calenda aveva denunciato, e per cui si è preso le spalle in faccia dei delegati Fiom. O sono ancora il baluardo assoluto contro il turbocapitalismo del terzo millennio?

La questione è più complessa ed è evidente che i sindacati oggi restano garanzia assoluta di impegno nelle lotte al fianco dei lavoratori. Il guaio è che quelle lotte sono impari come non mai e i sindacati sono poco equalizzati su un ruolo che è passato gradualmente alla politica. Movimentismo, manifestazioni, assemblee, slogan, iniziative, sono tutto foraggio di Partiti che a loro volta sono figli di crasi.

Unioni a volte sofferte fra la originaria matrice pop e una nuova visione morbida. La politica piega le istanze a se stessa e non prende più la loro forma, ove mai lo abbia fatto. Come con il Pd, che di comunista ha ormai solo un rivolo primigenio e che per decenni ha flirtato con la fasce sociali che non conoscono né cassa integrazione né licenziamenti. O come Azione e Italia Viva, cioè formazioni politiche che per battage, scelte ed indirizzi occhieggiano più alla finanza che alle sue vittime terminali.

Fare a livello nazionale come Frosinone

Enrico Coppotelli

In provincia di Frosinone la deindustrializzazione ha provocato un serrate i ranghi di proporzioni gigantesche, con stakeholder, imprenditoria, politica e sindacati che con gli Stati Generali puntano a dare una risoluzione ecumenica al problema. Ed in merito a quella “tempesta pe(c)fetta” Enrico Coppotelli della Cisl Lazio è stato chiaro: No alle singole “liste della spesa che avrebbero come unico effetto quello di piantare delle bandierine autoreferenziali e senza alcuna possibilità di concretizzazione. La Ciociaria ha tante emergenze, ma le stesse vanno inquadrate in un contesto regionale, nazionale, europeo e perfino internazionale”.

Una fase migratoria denunciata con chiarezza nei giorni scorsi dal professor Vincenzo Formisano, l’economista Unicas che guida la Banca Popolare del Cassinate. «Stanno passando in silenzio alcune delocalizzazioni della componentistica dell’automotive – allerta -. Quindi non preoccupiamoci solo dell’assemblaggio dei modelli, ma anche di tutto quello che c’è dietro un’automobile, delle sue diecimila componenti e dove vengono prodotte». (Leggi qui: “A Porte Aperte” con… la non-politica industriale).

Ma se in Ciociaria il rischio è ancora nella fase migratoria a Crevalcore quella migrazione, quella del fondo Usa KKR che ha annunciato la chiusura dello stabilimento, è già in atto. Perciò lì i toni sono stati diversi, più forti, polarizzanti e netti. Calenda aveva introdotto il tema sul quale era arrivato in stabilimento con un lungo post in cui non l’aveva toccata affatto piano.

L’automotive “svenduto” in silenzio

Foto: Andreas Liebschner © Imagoeconomica

Per lui il disegno è evidente e la crisi è quella generale dell’automotive. Ed è una crisi che ha responsabili precisi: “Il dato è che in Italia l’automotive si è letteralmente consumato. Non per la transizione all’elettrico, ma perché il gruppo Fiat ha scientificamente deciso di uscire dal settore nell’indifferenza generalizzata. E per riuscirci senza avere contro il sindacato si è comprato Repubblica. E di chi sarebbe stata colpa in punto di complicità, oltre che di una finanza con i media in tasca e l’impunità licenza di fare disfare? Di Maurizio Landini in primis, il che giustificherebbe il dietro front che si è preso a Crevalcore.

“Landini vuol fare politica e per farlo ha bisogno del supporto del principale giornale della sinistra. Che, guarda caso, è stato acquisito da chi sta desertificando il settore dell’auto in Italia. In un certo senso è un’operazione geniale, perché spendendo praticamente nulla – e prima o poi se la rivenderanno Repubblica – gli Agnelli si sono garantiti il fatto che nessuno a sinistra dica niente su quanto sta succedendo all’automotive.

“Caro Landini batti un colpo”

Maurizio Landini (Foto: Saverio De Giglio © Imagoeconomica)

Insomma, per il leader di Azione il quadro sarebbe quello di un gruppo azzoppato in Italia e florido in Francia, e di una zoppia che ha incontrato una dolosa cecità nel quarto potere. Se a questo poi si aggiunge che la deindustrializzazione è causa di dolori nella base ma al contempo effetto di miopie al vertice di uno stato come quello italiano lo scenario è completo. In punto di una certa purulenta faziosità perché sgambetta sia il governo Meloni che parti sociali ed opposizioni “official” ma completo.

Il centro destra dal canto suo gongola e, dato che ormai di destra centro si tratta, spara a palle incatenate. Lo fa con i suoi house organ (legittimati ad esserlo, per carità) come Il Giornale. Che fa passare una narrazione approssimativa almeno quanto quella di Calenda, solo a faziosità invertita. Lì il loop è quello della sinistra da salotto che a furia di strusciarsi alle banche ha perso l’imprinting della difesa dei deboli.

“I lavoratori che ignorano Calenda, che qualche ora prima era stato informato sul fatto che non fosse un ospite gradito in quel presidio, sono lo specchio di una politica fallimentare a sinistra.

Tutta colpa dei radical chic

Elly Schlein (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

E ancora, di mannaia compiaciuta: “I radical-chic come lui non vengono considerati interlocutori attendibili e credibili nelle vertenze dei lavoratori. Proprio perché non hanno mai fatto un vero giorno di lavoro in vita loro e non sono nemmeno in grado di sporcarsi le mani. Un discorso simile vale per Elly Schlein, che porta la bandiera dei radical-chic e non sa nemmeno come sia fatta una fabbrica ma di contro conosce molto bene il mondo dell’armocromia”.

La massa critica di queste analisi ha finito per produrre un Himalaya di fuffa talmente gigantesco che ogni soluzione sistemica a problemi come quelli della Magneti Marelli, dell’ex Ilva e dell’automotive ha la coda di un Pi Greco. Il guaio è che in Italia è talmente forte la sudditanza alle passerelle, al “bellaciasimo” e contrari, poi ai preconcetti che anche quel poco di grano in mezzo alla pula passa in crusca.

Cindia domina e l’Ue non decolla

Calenda ha detto cose forti ma non del tutto fuori asse, e l’atteggiamento generale del centro sinistra degli ultimi 20 anni è stato più da cachemire che da tuta blu. Ma il mondo è diventato anche di suo un posto dove essere tute blu in senso classico inizia ad apparire un anacronismo. La Cina non è più parte dell’equazione, è il gessetto che la disegna in lavagna. L’India è nuovo titano con cui fare i conti nel decennio. Ci sono nuovi competitor a bassissimo costo.

Gli Usa sono in terza proroga da shutdown e stavolta si sono salvati non pagando subito 6 miliardi all’Ucraina, prima volta di sempre dallo scoppio della guerra. E l’Europa della macroeconomia è una promessa mancata. Si delocalizza per scavalcare tasse e costi e la sola è far restare chi vuol andare via allettandolo a lungo termine.

Dovevamo evolverci e non lo abbiamo fatto, dovevamo tutelare il mercato italiano e non ci abbiamo pensato. Dovevamo poi avviare una transizione necessaria, creare precondizioni ottimali e non siamo andati oltre la mistica mesta delle isole felici dove è successo.

Cosa resta di quel che disse Marchionne

Il professor Paolo Vigo con Sergio Marchionne. Foto © Paolo Scavuzzo / Imagoeconomica

Nell’ottobre del 2007 un emozionato ma sempre algido Sergio Marchionne ricevette a Cassino la laurea honoris causa in Economia, management, finanza e diritto d’impresa. A conferirla l’allora rettore dell’Unicas Paolo Vigo.

E Marchionne disse: “Sono così tanti i meriti che voi oggi attribuite a un solo uomo. Non avrei mai potuto raggiungere questi meriti senza il coraggio e la passione, la capacità di molti colleghi e di molti collaboratori. Alla lista di ringraziamenti vorrei aggiungere tutti gli operai del gruppo Fiat, circa 180.000 nel mondo che hanno lavorato con impegno e determinazione per ridare orgoglio e credibilità alla loro azienda”.

Quel mondo là non c’è più e la scelta è tra dire “bei tempi” o capire che i tempi sono cambiati. Capire ed agire, tutti e di concerto. Magari partendo proprio da Frosinone, per scongiurare le altre Crevalcore che stanno minacciose all’orizzonte.