Quando le fabbriche chiusero i cancelli in faccia alle Br che uccisero Guido

Il sacrificio del sindacalista-comunista che non permise ai terroristi di fare il nido tra gli operai. E che pagò la sua scelta con la vita

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Sandro Pertini saltò sulla pedana messa all’ingresso di quell’immenso garage di Genova come un grillo. Era capace di gesti plastici in barba ad un’età che, a fine gennaio del 1979, era già veneranda. Davanti a lui centinaia di “camalli” genovesi: gente dura, grossa e spiccia, scaricatori di porto per cui il sale della vita arrivava in bocca a secchiate intere. E Pertini sapeva benissimo che in mezzo a quegli occhi corruschi annegati nello sporco c’erano anche occhi brigatisti. Lo sapeva al punto tale da aver voluto quell’incontro proprio per quello e senza ascoltare i consigli del mite Antonio Ghirelli, portavoce del Quirinale.

Pertini che grida “vergogna!” ai camalli

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1978 – 1985

Il Presidente gonfiò il petto e smise di essere il Presidente, tornando solo per una manciata di secondi ad essere quel satanasso matto che scioglieva la canzone del mitra sotto il covo-prigione di via Tasso a Roma. Lo faceva per provocare i tedeschi ed i fascisti secondini e quando lo raccontava rideva, ma solo con la bocca. Gli occhi restavano freddi.

Anche stavolta Pertini mitragliò il suo fronte, lo fece sparando una raffica secca di parole più pesanti del piombo. “Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!. Quelle parole caddero in un silenzio assoluto, poi qualcuno iniziò a battere le mani lentamente e forte, in crescendo di velocità e seguito da centro altre mani. Ed alla fine un lungo applauso rabbioso suggellò la cacciata delle Brigate Rosse dal mondo delle fabbriche italiane.

E il merito di quello sfratto era tutto suo: di Guido Rossa solo che lui non poteva gioirne perché i morti non gioiscono. E i morti ammazzati gioiscono ancor meno.

La missione di Rossa, fare squadra per lottare

L’Italsider di Genova (Foto: Archivio Italsider / Lisetta-Carmi-Martini-Ronchetti)

Aveva iniziato in fabbrica a 14 anni, Guido, poi era stato fresatore in Fiat a Torino ed infine era arrivato all’Italsider di Genova. Era schietto e comunista, Guido, in un’epoca in cui le due cose di solito combaciavano, ed era un sindacalista della Cgil. Aveva scelto il sindacato non per salire in gerarchia ma perché aveva un franco senso della collettività.

Lui sapeva che fare squadra tra operai era molto più che iscriversi ad un club, era il solo modo di arginare i soprusi di un’Italia tanto produttiva quanto cinica. Le ascese Guido le preferiva in montagna, la montagna che amava al punto tale da essere una skillatissima guida del Cai Uget di Torino ed un frequentatore degli ottomila nepalesi.

D’altronde in pianura buttava male e l’Italia era avviluppata da una cappa cupa in cui la lotta operaia aveva figliato una frangia impazzita per cui la sola via era quella della lotta armata.

Lo “struscio” a cui mise argine Berlinguer

Enrico Berlinguer a Venezia nel 1980 (Foto: Gorup de Besanez)

Quello del 1978/’79 fu un periodo cruciale: da quei mesi e da come sarebbero andate le cose dipendeva il successo del brodo di coltura che le Br avevano approntato nelle fabbriche. Il terrorismo si strusciava alla classe operaia ed aspirava a diventarne totem e delegato con carta bianca. Aldo Moro era morto ammazzato ed Enrico Berlinguer aveva messo un discrimine di ferro tra essere comunisti ed essere brigatisti.

Ma Moro era un notabile, e le colonne delle Br speravano ancora di far breccia in mezzo a quelli che non avevano l’auto di scorta e che le auto le facevano in catena di montaggio.

Era lo stesso periodo buio in cui, allo stabilimento Fiat di Piedimonte San Germano che aveva “solo” sei anni di vita, vennero acclarate infiltrazioni brigatiste.

L’omicidio De Rosa alla Fiat di Cassino

L’articolo dell’inviato de Il Messaggero, Luciano Di Domenico

La prova provata ed amara la si ebbe il 4 gennaio 1978. A cadere sotto il colpi dei brigatisti fu l’ex maggiore dei carabinieri Carmine De Rosa, che aveva mansioni di capo dei servizi di sicurezza della Fiat cassinate. De Rosa venne ammazzato al volante della sua auto mentre stava raggiungendo lo stabilimento. A firmare l’esecuzione il gruppo Operai armati per il comunismo. I ceffi dell’eversione armata trovarono argine nei sindacati ma il tentativo proseguì e gli infiltrati erano in azione da mesi.

Infiltrati come Francesco Berardi, che all’Italsider faceva (anche) il porta bolle. E che in virtù di questa sua mobilità all’interno dello stabilimento provvedeva a farcire alcuni punti chiave dello stesso di volantini Br che teneva nascosti sotto la tuta. Il 25 ottobre Berardi fece il suo solito giro di propaganda clandestina ma venne notato.

Da Guido Rossa, che lo teneva d’occhio da tempo nel suo percorso dagli armadietti alle macchinette lungo il quale, dopo che era passato lui, puntualmente venivano ritrovati qui volantini. Guido fece perquisire il box del collega, che risultò essere pieno di materiale brigatista e di fogli con numeri di targhe auto appuntati.

Berardi finì arrestato dai Carabinieri e sarebbe morto suicida a Novara il 24 ottobre del 1979. Ma qualcuno lo aveva “vendicato” nove mesi prima in quanto detenuto per colpa di un delatore “nemico del popolo”.

Punire Guido, gambizzare Guido, uccidere Guido

Il cadavere del sindacalista Guido Rossa (Foto Ansa / Fondazione Gramsci)

Dopo l’arresto la colonna genovese si trovò di fronte ad un dilemma. Continuare una campagna “strusciona” ed ignorare l’episodio o punire il delatore per dare un esempio? Le due cose erano inconciliabili ma i terroristi sono fatti così. Pur di essere muscolari preferiscono essere cretini prima ancora che assassini- E fanno sempre doppio centro. Guido Rossa venne avvicinato da un commando alle 6.35 del 24 gennaio 1979.

Ad attenderlo mentre si infilava nella sua 850 c’erano Riccardo Dura, Vincenzo Gagliardo e Lorenzo Guardi. Gli atti del processo dicono che l’intento originario era quello di gambizzare Rossa, ma dopo i colpi alle gambe Dura tornò indietro, sparò un quarto colpo mortale al cuore dell’operaio con la sua Beretta 81 e si prese una “promozione”. Nei quadri dell’organizzazione la sua verve punitiva venne vista come una meritoria botta di lodevole decisionismo.

Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli ed Alessandro Natta tengono il picchetto d’onore del Pci alla salma di Guido Rossa (Foto: courtesy Fondazione Gramsci)

A salutare Guido vennero in 250mila e la sua divenne la figura simbolo dell’argine che le fabbriche avevano fatto al terrorismo.

Un martire della sinistra legittimista immenso quanto urticante. Lo fu al punto che nel 2009 un film Rai di Giuseppe Ferrara sulla sua vicenda venne prima rifiutato dal Senato per la proiezione (motivi tecnici) e poi mandato sulla televisione di Stato.

In seconda serata e su Rai 3. Dove secondo un’Italia ipocrita che non muore mai è giusto che stiano gli eroi scomodi. Cioè nella casella delle cose meste e doverose, non di quelle terribili e didattiche.