Top e Flop, i protagonisti del giorno: giovedì 10 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di giovedì 10 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di giovedì 10 novembre 2022.

TOP

NICOLA ZINGARETTI

Non è stata un’uscita di scena. Ma un riprendersi la scena proprio nel momento in cui sta per cambiare teatro. Al Tempio di Adriano ieri mattina Nicola Zingaretti è tornato ad indossare i panni da leader. Quelli lasciati due anni fa quando ha preso a calci le sedie e gettato a terra la sua carica di Segretario nazionale del Partito Democratico. I fatti, a distanza di tempo, hanno certificato che non era né stanco né impazzito. Ma soltanto deluso.

Il Nicola Zingaretti visto ieri per il messaggio finale da Governatore del Lazio è lo stesso visto quando era segretario. Fermo ma non irremovibile, deciso ma non netto, impegnato a mostrare una prospettiva e disposto ad accompagnarci chi voglia seguirlo. Per chi è abituato al leaderismo similducesco della nostra epoca recente non deve essere stato uno spettacolo; per chi cerca una rotta politica ed è disposto a cambiare le cose deve essere stato quanto di più simile all’apparizione di una stella polare. (Leggi qui: Zingaretti: «Le dimissioni domani, ho servito la Costituzione»).

Non ha concesso un solo centimetro a Giuseppe Conte, nonostante proprio lui l’avesse indicato come l’ideale federatore dei nuovi progressisti; gli ha contestato di avere rotto senza motivo l’alleanza nel Lazio, innescando la reazione d’orgoglio di Roberta Lombardi che nel pomeriggio riconosce pubblicamente l’enorme portata del patto Pd – M5S nel Lazio. (leggi qui: Regionali: Lombardi tiene aperto il dialogo Pd – M5S).

Ha dato lezione di politica. Ad un Pd che con i suoi veti incrociati sta demolendo il Modello Lazio costruito da Zingaretti (la più grande coalizione Progressista dai tempi dell’Ulivo) ha risposto con la devolution per Roma: Roberto Gualtieri non sarà schiavo della Regione e dei suoi niet. «È questo il nostro modo di intendere il potere: utile non per chi gestisce ma per i cittadini».

Potrebbe tracciare la rotta. Non lo fa perché non sarebbe rispettoso dei ruoli. Ma non rinuncia a dire ciò che pensa. «Io ora non ho il compito di costruire l’alleanza del futuro perché chiudo un decennio. Però quello che penso è che io sono un costruttore di unità contro coloro che l’unità la distruggono per vicende partitiche che fanno un danno ai cittadini. Sono vicende che con il Lazio non c’entrano assolutamente nulla».

Leader vero.

FRANCESCO ROCCA

Francesco Rocca

La politica di Giorgia Meloni è in appeasement con quella di Mario Draghi soprattutto in un punto e per un motivo preciso: la premier sa di dover usare il gettone europeo con cautela assoluta e punta sull’affidabilita all’ennesima potenza.

Perciò cerca sempre non solo di andare a metà ma di farlo smussando gli spigoli di una storia politica in credito di vulnerabilità. Che significa? Che dove può Giorgia Meloni preferisce i tecnici d’area ai visir ideologici di Fdi.

Lo aveva dimostrato con la progressiva metamorfosi in campagna elettorale, lo ha fatto in quota congrua nella composizione del Governo e sembra intenzionata a farlo per il voto alla Regione Lazio di febbraio 2023. Ecco, Francesco Rocca è la prova provata di questa condotta.

Il possibile candidato a guidare la Regione Lazio è nell’ordine: foresto della mistica ideologica del destra-centro, bravo nel suo lavoro e vicino alla leader del destra-centro senza essere troppo organico alla sua visione prima dell’arrivo a Palazzo Chigi.

Presidente della Croce Rossa e già in spunta come ministro della Salute, Rocca rappresenterebbe il punto di giunzione fra la necessità di Fratelli d’Italia di intestarsi una possibile vittoria alla Pisana e quella altrettanto pressante di mettere un uomo di settore alla guida di una Sanità regionale sanata nei conti, perciò potenzialmente prodiga di successi. Di quelli e di ulteriori gettoni europei.

Perché una cosa è certa: Giorgia Meloni non vuole passare alla storia come la prima. Lei non vuole passarci come quella che, pur essendo la prima poi la sua prima l’ha steccata.

Uomo-polizza.

OTTAVIANI – MANCINI

Claudio Mancini. (Foto: Stefano Carofei Imagoeconomica)

C’è un posto nel quale tutti devono passare. E le maglie del passaggio possono essere larghe o strette a seconda di chi le manovra. Il posto ideale per qualunque agguato politico, in grado di motivare senza lasciare traccia finanche l’assassinio in culla delle più importanti leggi; o la loro nascita. Quel luogo di transito obbligato è la Commissione Bilancio di Montecitorio.

Tra coloro che governano quelle maglie da ieri ci sono due parlamentari legati ai territori del Lazio Sud: il leghista Nicola Ottaviani, due volte sindaco di Frosinone e coordinatore provinciale della Lega; ed il dem Claudio Mancini, originario di Picinisco ma così influente a Roma da incidere sull’elezione del sindaco Gualtieri. (leggi qui: Commissioni, ecco dove lavoreranno e con quale ruolo).

(Foto © Stefano Strani)

Non significa che da domani mattina ogni due testi di legge approvati, uno sarà per trasformare il sud Lazio nel sultanato di Shāhriyār della Persia. Ma che i due deputati godono di fiducia e considerazione altissimi all’interno dei loro Partiti e sono in una posizione che gli garantisce interlocuzione ai più alti livelli su ogni tema importante.

Basti ricordare che da lì, facendo leva su Claudio Mancini, il presidente del Consorzio Industriale del Lazio Francesco De Angelis nella scorsa legislatura riuscì a sbloccare provvedimenti che non si vedevano dai tempi della ex Cassa per il Mezzogiorno.

Ed a prescindere dalla differenza di ideologia, Ottaviani e Mancini nelle ore scorse si sono già telefonati. C’è sintonia.

Questione di feeling.

FLOP

STEFANO BONACCINI

Stefano Bonaccini. (Foto: Paolo Lo Debole / Imagoeconomica)

Stefano Bonaccini ha fretta di correre per la guida del Pd e che abbia fretta concettualmente non è un male. Il governatore dell’Emilia Romagna sa benissimo che l’onda lunga degli amministratori bravi ma snobbati sta per esaurirsi.

Sa quello e che il Partito sta per effettuare una di quelle mirabolanti giravolte all’indietro che hanno sempre fatto del Pd un sacrario per ogni novità che non avesse l’avallo dell’elite che lo governa.

Le Regionali in Lazio, Lombardia e Molise sono alle porte. E se poco poco qualcosa dovesse andare benino da quelle parti sarà difficile mettere il turbo sull’onda del rinnovamento radicale. Detto questo però resta un fatto: quello per cui il Pd è davvero il sistema complesso più articolato della politica italiana ed a mettergli troppa fretta si rischia sul serio di gettar via il bambino con l’acqua sporca.

Bonaccini ha detto che sul tema “decideranno gli organismi preposti ma mi pare che stia crescendo anche nel gruppo dirigente nazionale la consapevolezza che quello che io e tanti altri avevamo detto“. E cioè “che forse avevamo ragione cioè che i tempi dovevano essere un po’ più in sintonia con quello che si aspettano i cittadini normali a partire dai nostri iscritti e elettori“.

Insomma, bruciare le tappe del Congresso Pd a detta di Bonaccini non è esigenza di Bonaccini ma della base è da un po’ anche di molti quadri di vertice. Tuttavia il governatore papabile guida del Nazareno ha dimenticato di dire che le ragioni che muovono quelli che fra i vertici hanno fretta come lui sono le stesse che ha lui: di congruità politica, di logica protocollare e di opportunità.

Per il Partito è soprattutto per le ambizioni di chi il Partito lo vuole guidare.

Come la gatta del proverbio.