Nel campo giusto del M5s scorrazzano le ali sinistre ma nel Lazio sono stopper

La politica delle alleanze di Giuseppe Conte e il laboratorio Lazio che non ha saputo resistere alla nuova ondata "autarchica"

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il Movimento Cinquestelle è sempre stato in bilico tra due nature: quella “di sinistra” che rimanda alle sue origini ultrapop e quella più sovranista, che pure poggia direttamente sulla volontà diretta degli iscritti. Cioè su quel mantra del decisionismo in purezza della base che è appannaggio della destra più ultra-piaciona con gli elettori.

Questa sua veste “ibrida” ha costituito spesso sia croce che delizia per il M5s: nella fase “grillina”, quando cioè era movimento in purezza e tiranno nelle urne, essa aveva peso relativo. I Cinquestelle erano i Cinquestelle e basta, stavi con loro e sognavi di tonni, scatolette, Rousseau, Beppe-Gianroberto ed “uno vale uno”. Poi erano cambiate molte cose. Era arrivato Giuseppe Conte, la svolta “partitica”, il leaderismo da orizzonti di gloria e i governi remix.

A livello regionale nel Lazio il M5s ha vissuto tre fasi distinte, in quest’ottica postuma.

Le tre fasi del M5s alla Pisana

Quella del Campo largo con Il Pd, che ebbe proprio alla Pisana e con Nicola Zingaretti / Daniele Leodori/ Mauro Buschini a manovrare, esito di governo apprezzabilissimi. Con “l’anatra zoppa” in Regione Lazio si votava punto per punto e si squadernavano i temi nelle Commissioni, uno per uno. Si diedero sei mesi reciprocamente per studiarsi e verificare se ci fossero le condizioni per coabitare: come quando sei costretto a prenderti un compagno di studi nell’appartamento ma è proprio l’ultimo con cui avresti voluto dividere il tuo percorso.

Nella fase due, quella di stabilizzazione, Roberta Lombardi e Valentina Corrado con i loro dieci Consiglieri Regionali avevano tenuto in piedi tutto. Superati i sei mesi più altri sei di ulteriore verifica, il Movimento 5 Stelle scoprì che il Pd non era quello di Bibbiano ma quello di Zingaretti. Alla Pisana prese corpo una macchina legiferativa di secondo livello che era stata molto più di un avventato esperimento. E dall’Aula del Consiglio regionale del Lazio la cosa tracimò alle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama: al Governo Giallo-Verde seguì un inatteso Governo Giallo-Rosso.

Poi, terzo step, Giuseppe Conte aveva imboccato la via del “masaniellismo” in purezza e si era guastato tutto. Niente alleanza elettorale: al Campo Largo seguì un vero e proprio sabotaggio pentastellato con cui impedire la rielezione del centrodestra. Conte trovò su Rai Uno una candidata che si occupò di Regione Lazio solo nella campagna elettorale e poi sparì senza mai mettere piede in Aula. Conseguenza: pattuglia dimezzata, opposizione, M5S in Regione Lazio ridotto ad un ruolo insignificante. Nei mesi successivi verrà vampirizzato addirittura da Forza Italia e addio campo largo, ognun per sé.

Da Roberta Lombardi ad Ilaria Fontana

Roberta Lombardi

Questo mentre alla Camera era approdata Ilaria Fontana, non certo la più memorabile delle deputate per imprinting operativo nel terzo step decisorio del Paese, a contare Palazzo Chigi in trimurti.

Oggi il Campo largo è tornato a fare se non scuola almeno tendenza. La Sardegna e l’Abruzzo hanno testimoniato, al di là dei risultati, che la strada per battere il destracentro quella è, e solo quella. Almeno con questa legge elettorale.

Ma assieme ad una nuova visione prospettica e collegiale per Giuseppe Conte sono tornati i problemi. Ed hanno natura doppia: da un lato quella con cui l’ex premier deve sconfessare il suo “rigidismo” pregresso punto per punto, urna per urna diremmo. Dall’altro quella delle “componenti” pentastellate. Cioè deve dire ai suoi, ancora una volta, che il Pd c’entra nulla con Bibbiano: ed è medicina amarissima per i palati di un Movimento nato come antisistema e quindi anti Pd che del sistema è stato sempre architrave.

Come la mettiamo con Elly

Ilaria Fontana (Foto: Stefano Carofei / Imagoeconomica)

E qui torniamo a bomba, cioè a quale sia la vera collocazione d’area ideologica del fu Movimento, specie sulla forgia rovente della politica estera. Nell’equazione pesa poi la “X” del Partito Democratico. Pesa perché questo è il Pd di Elly Schlein, massimalista in vertice e riformista in polpa, cioè a sua volta creatura bicipite che suda le sue brave camicie ogni volta che deve equalizzarsi all’esterno. I Dem le sudano quando devono farlo all’interno, figuriamoci con terzi di altra segreteria.

In parafrasi calcistica questo M5s deve affidarsi alle sue “ali sinistre” per tornare a vincere facendo somma ma per troppo tempo ha puntato tutto sugli “stopper”. E Giuseppe Conte per un po’ è stato egli stesso il Fabio Cannavaro della faccenda.

Questo evitando rigorosamente di vincere ma mantenendo intatta una “purezza” che però assomigliava moto ad una paresi. Problema complesso dunque, con Elly Schlein che ormai ha assaggiato il sangue e che ripete: “Tutti uniti si vince”. Per le Europee la campagna elettorale del M5s non è stata finora molto premiale.

Conte che non è D’Artagnan

Elly Schlein e Giuseppe Conte a Firenze (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

E Conte? Ecco, lì il concetto del “tutti per uno, uno per tutti” non è così cristallino. “Giuseppi” non è mai stato un D’Artagnan ed a pensarci bene non può neanche permettersi di esserlo troppo. Non al punto da far arretrare l’identitarismo del “suo” partito rispetto all’utilitarismo dell’aritmetica in purezza. Un voto abruzzese favorevole poteva farlo propendere per la seconda strada, si sa, quando vinci tutti amici.

Ma lì il campo larghissimo le ha prese di brutto e Conte è tornato a parlare di “campo giusto”. Cioè a sciabolare riformisti dem e centristi di Italia Viva ed Azione. Il guaio è che ci sono le Europee in arrivo e Conte ha dovuto immediatamente trasformarsi, in meno di 36 ore, nel conducator di un partito che come tutti per Bruxelles correrà per sé.

Un po’ come Matteo Salvini che non ha fatto in tempo a sospirare di mezzo sollievo per averla “sfangata” in Abruzzo che è corso subito da Porro a cazziare Ursula von der Leyen. Solo pochi giorni fa Conte aveva avocato ai suoi il merito di essersi opposto alla risoluzione del Parlamento europeo. Quella cioè che chiedeva garanzie di rilancio per la fornitura di armi e munizioni a Kiev.

Otto volante tra Regionali ed Europee

Carlo Calenda e Alessio D’Amato (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

Sull’Ucraina il Pd invece è sempre stato un po’ bipolare. Si è tutti un po’ ambigui, di questi tempi, nelle segreterie, lo si è perché tutti i partiti vivono sull’otto volante di una compattezza interna necessaria e di una singolarità esterna altrettanto tirannica. Come il povero Pippo Franco che nel film e durante un derby Roma-Lazio era costretto a correre tra le due curve. Correre indossando via via i colori biancocelesti e giallorossi fino a sputare milza e polmoni.

Il Foglio la spiega molto bene citando la “voglia di Giuseppe Conte”. Quale? Quella “di dire mai più con Calenda e Renzi (che) si fa sempre più forte. (…) Conte preferisce non esporsi perché sono giorni decisivi. Per le elezioni in Lucania, va bene, ma anche per la giunta sarda dove pare che il Pd stia battendo cassa alla governatrice Todde chiedendo la presidenza del consiglio regionale e quattro assessori”.

C’eravamo tanto amati prima ancora di “torna cummè”? Più o meno. Grande è la confusione sotto le stelle, quindi servono gregari di lusso che irrobustiscano la rotta. Ex colonnelli con pedigree, meglio se di governo, che dicano la loro. Come Roberto Fico, che “sogna la regione Campania se non gli fosse negata dalle attuali regole interne”. Lo stop al terzo mandato da questo punto di vista pesa, a tanto.

Fico e Todde, le ali sinistre

Roberto Fico sull’autobus

“Fico e Todde sono i primi strenui difensori dell’alleanza organica con il Pd, rammaricati ed esterrefatti anche dal no di Calenda in Sardegna”. In ballo ed i gioco sarebbero dunque tornati quelli della “vecchia ala sinistra”.

A cui però si contrappongono gli identitaristi, cioè quelli più contiani di Conte che se gli nomini Calenda mettono le dita a croce come con Dracula.

Da Vespa poi l’ex premier pentastellato ha difeso il Superbonus, definendolo un “capro espiatorio di Meloni e Giorgetti per mascherare la loro inefficienza”. Insomma, lo scenario è da puzzle. Una mezza silloge l’aveva fatta Michele Gubitosa che è un po’ il De Pretis della baracca. “Proprio perché il M5S con gli alleati non ha accordi strutturali in tutta Italia, ogni volta che abbiamo elezioni come in Basilicata bisogna prima mettersi d’accordo sui temi e poi sui candidati.

Tutto bene, solo che tra un po’ ci saranno la Basilicata, dove Pd e M5s ebbero diottrie comuni con l’oculista Mimmo Lacerenza ma senza i centristi.

E con Lacerenza che invece aveva fatto retromarcia. Claudio Cerasa era stato magistrale: “Scene ridicole”.

Tutto parte dal vaffa di Lacerenza

Gianna Pentenero

“Pd e M5s per far saltare il campo larghissimo indicano un candidato in Basilicata più o meno a sua insaputa. Lo usano per ragioni tattiche, giocando con la sua reputazione. Il candidato capisce il gioco e li manda a quel paese”. Pare toccherà in quadra al presidente della Provincia di Matera Marrese.

Poi il Piemonte, dove addirittura i due partiti sono ai ferri corti sul Tav e sulla candidata abritraria dem Gianna Pentenero. Tutto in salita fino alle Europee, dove Giuseppe Conte dovrà tirar su acqua solo per il suo ma dove sta trattando per l’ingresso “in un’area prog”.

In bilico secco tra ciò che è e ciò che gli tocca essere, tra campetto parrocchiale e Santiago Bernabeu. E senza aver ancora capito quale dei due gli convenga di più.