Lo scienziato che visse l'infanzia a Roccasecca parla della lotta a Covid e di quanto ancora ci sia da impegnarsi. Ma l'occasione è anche quella per discutere dei grandi temi sanitari: dal modello Lazio alla funzione dei Dipartimenti Asl. Senza dimenticare i nuovi focolai, i casi di importazione e le strategie di una medicina che non è scienza esatta. Che perciò per vincere la battaglia ha ancora bisogno dell'aiuto del cittadino. Con tutti i comportamenti di sicurezza possibili. Perché il virus non va in vacanza.
Centinaia di nuovi casi al giorno e comunque un bilancio quotidiano che ad agosto ci riporta di nuovo sui numeri di maggio. Ce lo avevano detto: il Covid non è andato via. Dipende dai nostri comportamenti riuscire a tenerlo a distanza. E a confermarlo è il professor Giovanni Rezza, Direttore generale della Prevenzione al Ministero della Sanità. Ma, nei giorni più caldi della pandemia era Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive all’Istituto Superiore di Sanità.
Dal lockdown come decisione sanitariamente giusta a quelli che dicono che il virus non è più cattivo. Con il ricordo delle bare di Bergamo a fare da monito. Il professor Rezza parla del virus, di quello che ha fatto agli italiani e di quello che gli italiani e la scienza hanno fatto per affrontarlo. Lo fa smontando il ‘giallo’ dei verbali secretati. E mettendo in guardia contro un certo cospirazionismo che pare non abbandonare mai gli italiani quando il peggio è passato.
Perché il peggio sarà pure passato me è ancora in agguato. E per scongiurarlo serve attenzione assoluta di una Sanità che dopo il primo colpo si è rimessa sul ring. E comportamenti irreprensibili dei cittadini.
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Cominciamo da quei giorni più caldi, anzi, dalla fine di quei giorni più caldi. Cosa le ha insegnato questa pandemia?
«Personalmente non avevo mai vissuto una pandemia. Questo nonostante io mi sia sempre occupato di epidemie, tanto da scriverci sopra anche un libro per la Carocci.
L’ultima, quella del 2009, l’influenza H1N1, la cosiddetta ‘Suina’, alla fin fine si rivelò un po’ un’influenza leggermente più cattiva. Soprattutto perché poteva dare complicanze maggiori a donne gravide, persone iper obese o fumatrici. Per il resto sembrava un’influenza normale.
In questo caso invece abbiamo vissuto giorni davvero terribili. Adesso c’è quasi un processo di rimozione, ci sono colleghi che dicono che il virus è diventato ‘buono’. E che si chiedono perché alla fine abbiamo fatto questo lockdown. Hanno però già dimenticato le bare portate dai camion dei militari a Bergamo».
Siamo onesti professore. Lei ha detto di non aver mai visto una pandemia. Non è che non l’aveva vista solo lei: in Europa di fatto nessuno ne aveva mai vista una.
«Chi di noi è più anziano era molto giovane durante l’Asiatica e la Hong Kong. Però erano influenze che non ricordavano neanche da lontano la Spagnola. Questo da un punto di vista di letalità e mortalità».
Di fatto, non ce la siamo cavata male.
«Alla fin fine siamo stati abbastanza bravi. Non tanto nel diagnosticarla rapidamente. Perché quando il 21 febbraio è stato diagnosticato il primo caso con quel ragazzo, Mattia, il virus circolava già da almeno un mese. Si pensa dalla metà di gennaio. Tuttavia dopo sono state prese decisioni coraggiose.
Il lockdown a livello nazionale è stata una di queste. Bloccare la mobilità di un paese poteva sembrare azzardato. Oppure una scommessa non necessariamente vincente. Perché di fatto non avevamo mai cercato di bloccare un virus a trasmissione respiratoria con misure quarantenarie. Quelle cioè che si usavano nel 1400 con la Repubblica Veneta.
Mai tranne che in Estremo Oriente all’epoca della Sars nel 2003 erano state utilizzate misure di sanità pubblica così ‘repressive’».
Chiedo allo scienziato: siamo in un periodo in cui tutti ora dicono ‘fateci vedere i verbali’. Passata la paura adesso ci mettiamo a fare i dietrologi?
«A prescindere da valutazioni su se fosse giusto o meno secretare o desecretare. Qui siamo nel campo delle opinioni. Devo tuttavia riconoscere che effettivamente in giro c’è molto cospirazionismo. Si pensa a chissà che cosa potesse esserci dietro alla secretazione di certi verbali. Questo quando invece erano soprattutto delle valutazioni di tipo scientifico».
Facciamo un passo indietro. Lei ha scritto dei libri sull’argomento. Si sarebbe mai aspettato una violenza tale da parte di questo virus?
«Le immagini di Wuhan erano abbastanza chiare, Dopo di che qualcuno all’epoca diceva ‘però quella è la Cina’. Come se la Cina di oggi fosse l’ex Congo Belga di re Leopoldo. Di certo la Cina è un Paese abbastanza avanzato, soprattutto al livello di grandi città. Abbiamo visto persone che affollavano i Pronto Soccorso cinesi: non dico che morissero per strada però intanto non c’erano più posti negli ospedali. E questo era un segnale.
Abbiamo visto una letalità del 2/3% che non è pochissimo per una popolazione giovane come quella cinese. Ricordiamo che quella cinese è popolazione molto più giovane di quella italiana, con almeno 20 anni di meno in media».
«Di fatto abbiamo realizzato molto presto che questo virus aveva un modello di trasmissione molto dissimile da quello della Sars. I pazienti affetti da Sars diventavano massivamente contagiosi dopo una settimana dalla comparsa dei sintomi. Perciò isolandoli si riduceva il modello di trasmissione. Qui invece avevano un modello di trasmissione simile a quello dell’influenza. Cioè i pazienti diventano contagiosi al momento della comparsa dei sintomi».
«E questo fa si che poi sia più difficile arginare la diffusione del virus. Esserci almeno parzialmente riusciti è stato un buon successo. Oggi tutti dimenticano, l’Italia è un paese con la memoria corta. Però il problema non è affatto passato, mi piacerebbe raccontare queste cose al passato. Ci sono aumenti nelle segnalazioni dei casi».
Ce lo dovevamo aspettare? Da anni gli scienziati avvertivano che in natura è lecito aspettarsi ogni tot il salto di un virus dal mondo animale a quello umano. I grandi investimenti della medicina sono stati fatti per avere pronta risposta. Nessuno di noi ci credeva davvero?
«Noi ci aspettavamo The Big One, la Grande Pandemia. Sapiamo che i virus fanno i salti di specie, cioè dall’animale saltano all’uomo, all’uomo si adattano e cominciano a trasmettersi da persona a persona. Ebola lo fa spessissimo ad esempio. Però non ci preoccupa molto perché Ebola si trasmette per contatto diretto. Basta dunque evitare di toccare il malato. In un Paese europeo mediamente sviluppato Ebola non preoccupa malgrado sia molto più grave di Coronavirus e Sars 2. Il virus della Sars 2002/2003 ha fatto il salto di specie dal pipistrello all’uomo e quelli influenzali lo fanno continuamente».
«Quello che quindi noi ci aspettavamo era una grande pandemia influenzale. Del tipo Spagnola, Asiatica o Hong Kong per intenderci. Magari dovuta ad un virus influenzale aviario. E che potesse essere molto virulenta per l’uomo. Forse non ci aspettavamo una pandemia dovuta di nuovo, come nel caso della Sars, ad un coronavirus. Questo perché non lo si riteneva molto probabile».
Abbiamo visto una Regione Lazio che nel giro di due o tre settimane ha rivoltato come un pedalino la Sanità. Prima anche solo spostare un portantino era difficilissimo. Poi invece siamo stati capaci di svuotare ospedali, trasformare le mission, creare dal nulla ben 5 Covid Hospital, moltiplicare fino a 1400 i posti di terapia intensiva a fronte di 150 originari. Tutto in 3 settimane. Quindi se vogliamo siamo capaci di farle le cose?
«Si, abbiamo di mostrato di essere un Paese che di fronte all’emergenza riesce a reagire con forza. Ci sono Regioni che sicuramente hanno migliorato molto le condizioni di partenza e di certo il Lazio è fra queste.
Poi il Veneto, ma di esso sapevamo che era una grande struttura, soprattutto a livello di medicina territoriale.
Il caso Lombardia è difficile da giudicare invece. Il sistema è molto ospedale-centrico. Ci sono forse i migliori ospedali d’Italia. Però a livello di medicina del territorio la Lombardia non è tanto forte quanto lo è a livello ospedaliero».
L’organizzazione ospedale-centrica era quella che il nostro territorio aveva fino a una decina di anni fa. Quando cioè per qualsiasi cosa il punto di riferimento era l’ospedale. Da alcuni anni a questa parte si è potenziata la medicina di territorio, con medici di famiglia e di guardia per i week end. Questo ha contribuito a fare la differenza tra il lazio e la Lombardia?
«Non solo, anche la medicina preventiva è stata sviluppata. Cioè i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl, che sono quelle strutture dove gli addetti devono rintracciare casi. O riuscire a ricostruire le catene di trasmissione. E devono avere un po’ il polso del territorio.
Un modello quindi differenziato. L’Italia è paese molto vario. Qualcuno di questo si lamenta e invoca una maggior centralizzazione. Altri dicono che la differenziazione va bene e qualsiasi tentativo di centralizzazione fallirebbe se non lo si adatta alle differenze regionali. C’è un dibattito che arriva indietro fino alla riforma del Titolo V della Costituzione».
Vi siete confrontati con un virus nuovo. Quindi si poteva dire tutto ed il contrario di tutto. Ogni mattina si scopriva qualcosa di più. Quanto è stato difficile in una comunità scientifica individuare un comune denominatore?
«Io appartengo all’area ortodossa. Di quelli cioè che dicevano “chiudiamo”. Altri colleghi non la vedevano così brutta come in Cina. Poi però nella Fase uno ci siamo allineati un po’ tutti.
Le grandi differenziazioni sono venute fuori nella Fase due. Quando cioè il pericolo sembrava apparentemente passato. E’ lì che ci si è divisi, con chi diceva che il virus era diventato ‘più buono’. E che il virus si era adattato all’uomo. Cosa questa non vera perché il virus ha fatto pochissime mutazioni».
Ne farà altre? Molto sensibili?
«Nessuno è in grado di leggere il futuro. Se lei mi chiedesse cosa accadrà fra una settimana, uno o tre mesi io non glie lo saprei dire. A volte bisogna avere il coraggio di ammettere che si deve convivere con l’incertezza. Perché non c’è un modello matematico che ci possa dire quello che accadrà. Siamo diventati più bravi a contrastare il virus, e in questo momento stiamo arginando i focolai».
«Abbiamo soprattutto molti casi importati. l’Italia è circondata da Paesi che hanno una situazione peggiore della nostra. In questo momento importiamo casi, in un primo momento li abbiamo esportati. Ci sono molte persone che arrivano dall’esterno. E che importano il virus. E’ importante allora identificare i focolai e contenerli immediatamente. Così si sta facendo perché siamo diventati più bravi a farlo. Riusciamo a diagnosticare subito una persona che ha il Covid 19. E a rintracciare ed isolare i contatti. Finché riusciremo a farlo tutto andrà abbastanza bene».
Dove vede il rischio?
«Che se i casi che importiamo si moltiplicano a quel punto qualcuno comincia a sfuggirci. Non riusciamo più a ricostruire tutte le catene di trasmissione ed a interromperle. E lì puòcrearsi una situazione con un livello di rischio un po’ più elevato. A quel punto bisognerà intervenire con delle zone rosse. Cioè chiudere temporaneamente delle piccole zone. Questo è stato fatto ad esempio a Fondi, ed ha funzionato. E potrebbe funzionare benissimo anche oggi. E’ quindi difficile dire se saremo in grado di contenere i focolai o impedire una diffusione del virus con zone rosse».
«Noi non stiamo aspettando la seconda ondata, abbiamo interrotto la prima. Oppure non sappiamo se il virus riuscirà nuovamente a sfuggirci di mano e proseguire in questa ondata che abbiamo interrotto con il lockdown. Da un punto di vista economico non ci possiamo permettere un secondo lockdown nazionale. Perché l’economia è in crisi è bene arginare subito il fenomeno in modo da dover arrivare di nuovo alla chiusura totale».
Lei ha avuto paura? C’è stato un momento in cui avete detto “Forse non ce la facciamo”?
«Si. Quando sono comparsi i focolai in Lombardia, in Emilia Romagna e Veneto. Quando c’è stata l’espansione verso il Piemonte e le Marche. In Lombardia poi con Lodi, Brescia Bergamo, che tutti ricordano. Ecco, in quel momento non c’era certezza che saremmo riusciti a bloccare quella prima ondata».
Gli italiani quanto lo hanno capito questo? Sorprendentemente hanno rispettato il lockdown. Poi però c’è stata una sorta di tana libera tutti. Oggi lei non vede un po’ troppa faciloneria e poche mascherine?
«Si. Basterebbe poco, se tutti portassero la mascherina. Noi ora siamo abbondantemente distanziati e posso non aver bisogno della mascherina. Ma se lei fosse infetto e starnutisse già qualche problema potrei averlo. Se io comunque porto la mascherina e lei da vicino mi tossisce in faccia questa non mi protegge molto. Però se lei portasse la mascherina la stessa farebbe da barriera meccanica alle goccioline che contengono il virus.
Se quindi tutti portiamo la mascherina alla fine siamo tutti un bel po’ più protetti. Abbattiamo cioè la trasmissione del 70/80%. Evitare di portare la mascherina specie in un luogo pubblico e quando ci troviamo a distanza ravvicinata è stupido».
Il ritorno a casa. Lei è di questo territorio, nativo di Caprile. Quando andò via da qua per studiare?
In effetti io sono nato a Roma. Anche se tutti sanno che io sono neanche ciociaro, dato che questa è Terra di Lavoro. Eravamo Regno delle Due Sicilie però i miei erano entrambi originari di Roccasecca. Sono quindi un roccaseccano a tutti gli effetti, geneticamente.
Ho sempre passato le estati qui quando ero piccolo. Addirittura in seconda elementare ci ho trascorso un anno qui. Ho studiato a Caprile. All’epoca c’erano le elementari e credo si facessero classi insieme perché gli alunni non erano molti. Però c’erano i maestri e ricordo che si portava a scuola la legna. Ricordo che c’era una stufa e portavamo la legna per alimentarla».
Di fatto cosa le ha lasciato l’esperienza di questo territorio?
«Sono molto legato ad esso. Nonostante ci sia nato non mi sono mai considerato romano. Sono un immigrato di seconda generazione. E il fatto di avere radicI altrove rispetto ad una città importante».
Ha seguito lo sviluppo della pandemia qui sul territorio?
«L’ho seguita a livello nazionale, però uno sguardo a casa lo davo per diversi motivi. Perché vivendo a Roma davo uno sguardo a ciò che avveniva nella regione Lazio. Quindi chiamavo i colleghi regionali e chiedevo come andasse. Ed anche da dove venissero fuori eventuali nuovi casi, perché ovviamente c’era anche l’interesse personale oltre alla curiosità scientifica.
E quindi uno sguardo alla provincia di Frosinone lo davo sempre. Ultimamente siamo stati per giorni Covid free, però dobbiamo incrociare le dita. Questo perché comunque i casi stanno qua e là aumentando e bisogna stare molto attenti».
Un consiglio a territorio, Lazio e Italia. La mascherina e soprattutto non far calare l’attenzione.
«Innanzitutto il distanziamento fisico. Non creare grandi aggregazioni. Poi quando si sta in un luogo pubblico, soprattutto al chiuso, utilizzare sempre la mascherina, anche nei trasporti pubblici. Poi lavarsi frequentemente e bene le mani.
L’igiene delle mani è importante, perché noi portiamo le mani tantissime volte agli occhi, a naso e bocca. C’è quindi il contatto con le mucose e il virus puo’ essere trasportato attraverso le mani. Certo, la cosa più importante sono le goccioline di saliva, ma lavarsi le mani frequentemente pure è importante».
Da Direttore generale dell’Ufficio di Prevenzione al ministero, il Paese come sta reagendo? E’ pronto? Abbiamo appreso abbastanza?
«Abbiamo appreso molto. Abbiamo più posti di terapia intensiva. I Covid Hospital, a livello di territorio c’è molta attenzione. Speriamo che i colleghi anche a Ferragosto vigilino su di noi. Perché è importante e perché il virus non va in vacanza. Siamo più pronti rispetto al passato, però certamente la battaglia sarà ancora dura».