Quelli che non fecero Natale perché dovevano distrarre lo Stato: col sangue

Il 23 dicembre del 1984 la strage del Rapido 904 e l'agghiacciante cambio di strategia della mafia, che "incolpò" i terroristi

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Ci sono poche immagini più belle di un treno che nel periodo festivo corre a riversare affetti che raggiungono altri affetti per Natale. In questi giorni la sentiamo tutti, la sinfonia sottile e persistente di un periodo speciale: nelle luci, nei rumori e nelle facce di chi ci sta accanto. Non è una mistica poi così scema. Piaccia o meno, si creda o no, Natale è una calamita che si tira dentro il meglio del meglio delle nostre esistenze. Cose spirituali, cose vacue, cose effimere e cose persistenti e cardinali, va tutto a finire in quel calderone di velluto rosso.

Ci aveva provato Sergio Mattarella, a descrivere quel clima. Lo aveva fatto un anno fa e lo farà oggi: “Era l’antivigilia del Natale del 1984. I vagoni erano pieni di famiglie dirette nei luoghi dove avrebbero trascorso le festività. Non si poteva concepire un atto criminale più odioso e spregevole diretto contro il popolo italiano”.

Mattarella ricorda, e fa fatica a farlo

Sergio Mattarella

Caso più unico che raro, al Capo dello Stato non gli venne molto bene, quella commemorazione delle vittime della strage del Rapido 904 avvenuta il 23 dicembre del 1984. Gli mancò grip espositivo, non certo emotivo, perché quella fu una strage strana, orribile ma strana, e ancora oggi a quella sua eccentricità pagano pegno storici, giornalisti, studiosi. E parenti delle vittime, 17 persone tra cui tre bambini, e di 267 feriti trasportati in fretta e furia negli ospedali dell’Emilia Romagna.

Mattarella fu costretto ad attenersi al narrato degli esiti giudiziari sulle indagini innescate da quella mattanza. E come tutti, non ebbe problemi nel ricordare le vittime ma ne ebbe qualcuno nel disegnare il palchetto dei carnefici.

Per capire cosa accadde e come accadde nella galleria dell’Appennino subito dopo Vernio a bordo del convoglio che da Napoli puntava su Milano bisogna fare un salto indietro di un anno.

Cosa c’entra Rocco Chinnici che saltò in aria

Il generale Dalla Chiesa

In via Federico Pipitone, a Palermo, era stato ammazzato con una bomba il giudice Rocco Chinnici. Con lui morirono a pezzi Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi. La mafia aveva inaugurato da poco la sua stagione stragista e non ammazzava più per singoli target. L’offensiva della magistratura si stava facendo sentire forte. E Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Beppe Montana e cento altri avevano reagito e lo avevano fatto bene, dopo l’uccisione del generale-prefetto Dalla Chiesa.

Quella reazione aveva colto le coppole storte impreparate a fronteggiare inchieste, nuovi metodi e pericolosità dell’avversario. Bisognava fare qualcosa. Sì, ma che c’entra un treno che porta gente per Natale in continente con una guerra isolana dove chi crede di vincere all’improvviso inizia a pensare di poter perdere? Lo capiremo, e lo capirono quei 17 disgraziati a bordo del convoglio.

Quella sera in galleria: il botto e l’orrore

Tutto era stato studiato alla perfezione: per aumentare la forza dell’onda d’urto il telecomando che azionò il Semtex ed il Tnt nascosti in una griglia per bagagli del vagone centrale venne azionato in galleria. Era domenica, era sera e il locomotore E444030 stava spingendo le carrozze ad circa 160 kmh lungo un rettilineo nel tunnel. Dal vagone numero 9, che letteralmente si sventrò come una lattina verso l’esterno, la deflagrazione si propagò in due modi, perché la cinetica dell’orrore è pur sempre fisica.

Lungo l’asse longitudinale del treno stesso, sfondando le porte divisorie e soffiando migliaia di frammenti lungo i camminamenti, e di lato. Ma al lato del treno c’erano le pareti della galleria, che rimandarono l’onda indietro, compressa e non ancora dispersa, e chiudendo tutto, lamiere, sedili, persone, bagagli e vetro in un unico, tragico libro di sangue. Volevano fare più male del male possibile, quei maledetti.

Morirono in 16 subito ed un’altra vittima in un secondo momento, in ospedale. Morì anche la famiglia De Simone, padre, madre e due figli di 9 e 4 anni, che da Somma Vesuviana stava raggiungendo Milano. I soccorsi furono prima confusi, poi esemplari. Il fumo in galleria costrinse agenti, infermieri, carabinieri e personale a lavorare con maschere di ossigeno, per loro e per i feriti. Le ambulanze partirono per lo più alla volta di Bologna. E quello fu il terribile battesimo del 118 come lo conosciamo oggi, modellato sull’eccellente piano di emergenza innescato dalla strage alla stazione felsinea dell’agosto 1980.

“Maledetti terroristi”, ma sbagliavano tutti

Ecco, quel tragico precedente e quello ancor più recente del treno Italicus di 10 anni prima innescarono la parola chiave che balenò in testa a tutti quando si iniziò ad indagare: terroristi. Erano stati i terroristi e no, il Paese non ne era ancora fuori, da quell’Inferno appaltato ultimamente soprattutto dall’eversione nera.

Sbagliarono, sbagliarono tutti e la verità era un’altra: confusa, disegnata a pezzi e raccontata a brani, a volte inverosimili, altre disorganici, ma che alla fine giunsero ad una omogenea conclusione giudiziaria. Partiamo dai responsabili censiti in Cassazione, dai cordoni che fanno aprire il sipario cioè su una delle operazioni criminali più aberranti di sempre.

Nel 1992 vennero condannati per strage Giuseppe Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn. I primi tre erano mafiosi ed il primo di quei tre, “Pippo” Calò, era anche tante altre cose.

Cassiere della mafia. Uomo cerniera tra vecchia mafia e “viddani” corelonesi, quinta colonna della mafia a Roma. Poi datore di lavoro per un po’ della Banda della Magliana e ambasciatore dei siciliani presso la camorra campana dei Misso e dei Nuvoletta. Inutile quasi dire che nel pedigree di Calò figurava anche un lungo comparaggio con alcuni esponenti, mai censiti malgrado la desecretazione degli atti del 2014, dei servizi segreti.

Distrarre lo Stato con un nemico “falso”

Insomma, cosa accadde per spingere una ghenga di coppole storte a prendere di mira non poliziotti, carabinieri, giudici i politici scomodi ed a puntare invece un treno che portava gente comune a fare Natale? Lo spiegò bene, amaramente e terribilmente bene, il Pubblico Ministero Luigi Vigna. Lo fece durante la sua requisitoria il 9 gennaio 1986 durante un processo di primo grado che ad un certo punto del suo percorso sarebbe anche incappato nella scure del giudice “ammazzasentenze” Carnevale.

E disse alla Corte che la strage avvenne “con lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata. Criminalità che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura. E per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato”. Fermiamoci e riflettiamo. Giovanbattista, le due Anna, Angela, Giovanni, Nicola, Susanna, Lucia, Pier Francesco, Luisella, Carmine, Valeria, Maria, Federica, Abramo e Gioacchino morirono per cosa?

Esatto, perché la mafia decise di distrarre lo Stato da quel che la mafia faceva e stava subendo. E lo fece creando un orrore la cui patente era attribuibile ai terroristi. Questo in modo che la pressione si allentasse lì da loro nella misura in cui aumentava altrove. Una tattica, 17 persone morirono per una stronzissima tattica da Risiko. Per un piano studiato a tavolino con la stessa noncuranza con cui a Monopoli si disporrebbero casupole in plastica sulle caselle.

E morirono con responsabili certi ma non certi al punto da far avere risarcimenti in sede civile ai loro cari. 39 anni fa, poco prima di Natale, con la sinfonia sottile e persistente di un periodo speciale. Che poi diventò botto, e infine silenzio.